lunedì 26 novembre 2018

Della vita che cambia. Storia di Penelope e dei suoi ricami.

“In greco, ritorno si dice nóstos; álgos significa sofferenza. La nostalgia è, dunque, la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare”.
Milan Kundera (l’ignoranza)


È forse questo il sentimento che mi accompagna da così tanto tempo? La nostalgia di me, il non vedermi più tornare? Quanto tempo trascorso col passo del gambero alla ricerca dell’altro capo del filo? Un’instancabile Penelope. Qualcosa che potesse finalmente colmare la voragine al centro del mio petto. Quel vuoto che troppe volte ho temuto di non saper dissimulare. Ha il male di vivere. Così dicono di me e, diamine, magari fosse stato davvero solo questo. È una ragazza fragile. È una donna perennemente depressa, ma che le mancherà poi? Quando, al limite, siamo represse, non depresse che poi è peggio.

E la vita nel frattempo si snoda nei dettagli di uno scadente film, mentre tu da fuori ti guardi brancolare nei medesimi errori di sempre senza capire perché.
-un’adolescenza lampo
-una laurea buona, ma non buonissima
-un matrimonio, ottimo, se solo la protagonista fosse certa di volersi sposare
-un lavoro sbagliato, il più sbagliato possibile
-la maternità, il caos e il suo delirio, l’amore, il divorzio.

Un susseguirsi di cliché banali. Vero? Ti ci rivedi anche tu, non è così? Casino più, casino meno. Cosa c’è in questo susseguirsi di eventi tipici della vita umana che non va? Perché tu, invece, non riesci a tenere il passo? Tu che hai trascorso anni a vivisezionare ogni singolo ricordo della tua esistenza. Tu che i tuoi traumi li conosci uno ad uno. Spesso passeggi con loro, li tieni per mano. Tu che conosci il nome di ogni emozione repressa, tu che non le lasci esplodere nelle tue relazioni perché i mostri sono i tuoi e li gestisci tu. Sola. Tu che la vita è meglio in terapia così non rischi di distruggere gli altri con le tue frustrazioni. Proprio tu, non ti incastri, nelle giornate che ti ritrovi a vivere e il motivo, ragazza mia, è semplice. Paradossale sì, ma semplice. Non hai la minima idea di chi tu realmente sia. È per questo che sei così vagabonda. È per questo che oscilli in un moto infernale da una vita all’altra. È per questo, che il tuo amore è una donna di cui hai paura. Perché lei è te più di te stessa, la versione indomita di te. Apparentemente, amica, la vita che hai fino ad oggi vissuto, con i demoni, i mostri nel cassetto e i sogni sotto al letto, non ti ha insegnato nulla di importante. Il castello di carte della brava bimba che hai imparato ad essere era, appunto, carta straccia e ora, come farai? Ora, che hai gli occhi aperti sui cumuli delle tue bugie sapientemente ricamate sulle scelte più inconsapevoli e folli possibile, cosa hai intenzione di farne di questa vita qui?

Passo uno: comprendi che la vita è la tua. Tua non è un aggettivo possessivo come gli altri. Pronuncialo piano, a bocca piena di te e, prenditi la responsabilità della tua vita. Di ogni suo aspetto.
Passo due: la felicità è una conseguenza, non una meta. Piantala di agire secondo la logica del faccio questo così rendo felice chi mi circonda. Non esiste sillogismo più perverso. Le perversioni, tienile dove servono e basta. Vivi assecondando la tua natura e la felicità arriverà e se non lo farà, ma tanto lo farà, hai sempre tutto il vino che vuoi!
Passo tre: ricordi tutte le virtù che ti hanno fatto esercitare perché una brava ragazza si comporta così? La buona educazione, la generosità, la bontà, la solidarietà, il garbo, la classe ad ogni costo? Ecco, amica, prendile e buttale via dal tuo viaggio, tieni con te solo il coraggio. È tutto ciò che la vita ti richiederà. Il coraggio.

Abbi il coraggio di essere chi sei e null’altro.
Abbi il coraggio di rischiare, anche quando sai che ti farai piuttosto male.
Abbi il coraggio di cambiare. Fallo il più spesso possibile. Non ascoltarli quelli che ti rimproverano di non saper vivere in maniera adulta la routine. Sì, è vero, non lo sai fare. Evviva Dio! Sei come il vento, prova a prendermi se ci riesci!
Abbi il coraggio di amare. Ama, come ti viene richiesto lì, alla bocca dello stomaco, perché bimba, è nello stomaco che risiede la verità, non nelle categorie mentali. Ama lì, nel posto sbagliato, al momento sbagliato, la persona sbagliata perché domani scoprirai che quello era il posto giusto, con la persona giusta nell’unico momento possibile.
Passo quattro: cancella la nozione di tempo dalla mappa del tuo viaggio. Il tempo non esiste. È un’umana invenzione e in quanto tale, imperfetto, ed è suscettibile di cambiamenti e miglioramenti. Tu resta nel tuo tempo. Il tuo ora. Lo so che il mondo fa chiasso e tu devi trovare il silenzio, ma ascolta il tuo orologio. Il segreto, amica è respirare. È così che trovi il passo giusto. Il tuo tempo, il tuo viaggio, la tua vita. La tua felicità.

Esci dal tuo cantuccio, quel posto così comodo costruito in meticolosi anni di battaglie. Spogliati tutta e, quando sarai completamente nuda, osserva bene chi resta e chi va, ma presta l’occhio anche a chi arriva, non perché il nuovo sia meglio del vecchio, spesso non lo è, ormai lo sai, ma perché fino a quando manterrai lo sguardo altrove, saprai di andare nella giusta direzione. Non dietro, non accanto, neppure oltre, solo altrove. Nei tuoi luoghi.

E, infine, amica è il momento del quinto passo: la violenza peggiore per quelle come noi, eppure, è il vero passo del cambiamento. Impara che le parole, non sono le armi letali che credevi. Le parole, persino le tue che credi di usarle tanto bene, sono solo petali nei nostri cannoni. Siamo ciò che facciamo, non quello che diciamo che faremo. Per questo motivo, goditi la musica inebriante del loro suono, poi però piega le parole ad un’azione. Se le parole di chi ami, sono belle ma non sono seguite da un’azione, anche irruenta, anche eccessiva, tu, quelle parole, lasciale cadere nel vuoto di chi le ha pronunciate e passa oltre.

Vedi amica, non c’è modo di fermare la vita. L’unica cosa che puoi fare, è sederti in silenzio. Respira. Lenta. Tutta l’aria che puoi.
Shhh! Ascolta la vita che accade, amica.

Senti che bel rumore.

Michela


giovedì 1 novembre 2018

Sotto pelle.

Sotto questa pelle che tutti toccate, si nasconde un’altra Michela. La sento sgomitare per emergere.
È indomita, irrequieta, perennemente in tempesta. Beve a grandi sorsi la vita come fosse Scotch finemente invecchiato, brinda con fiducia a ciascuno dei suoi insuccessi. Sa che solo questi, la porteranno alla meta. Qualunque essa sia.

Se elimini uno strato, trovi un’altra Michela. Ha da poco superato i trenta. Ha sposato il suo più caro amico, perché sapeva di casa. Aveva sperato che questo bastasse a crearne una che fosse nuova e solo sua. L’aveva arredata con amore e vi aveva messo dentro una bambina meravigliosa. Non aveva tenuto conto che quella bambina, sarebbe diventata presto il più impietoso degli specchi e avrebbe finito per ricordarle ogni singolo giorno, la menzogna che viveva in quella casa. Non era casa sua. Nemmeno quella lo era. Da allora ne cerca una.

Se scavi ancora, ne trovi un’altra. Non ha ancora trent’anni. È innamorata più dell’amore che di un uomo in particolare. Ad ogni nuova storia, non riesce a spiegarsi come sia possibile arrendersi all’idea che lui sia quello giusto, se poi deve spiegargli come fare ad esserlo. Non lo sa ancora, ma lo farà altre svariate decine di volte. Spiegare se stessa. Giustificare se stessa. Per essere amata. Altrettante volte, scoprirà di non esserlo mai stata. Per questo, forse, non si spiega più.

Al di sotto di quella Michela, ce n’è un’altra. Non sa ancora quanto disincanto sia capace di provare la sua mente. È, invece, all’estenuante ricerca della stabilità e, in quell’unica parola, ha racchiuso la ricerca intera della sua felicità. Vuole una famiglia che non sia sgangherata, dove si parli solo a bassa voce e ci si abbracci tutto il tempo. Sogna una casa inondata di luce, di avere il pollice verde e di saper cucinare la lasagna con la stessa familiarità con cui è in grado di bere tre shottini uno dietro l’altro. È una alla quale, la vita ha insegnato a reggere bene l’alcol, non a mantenere in piedi l’amore. A periodi alterni combatte con le altre per far sì che i suoi sogni non finiscano nel dimenticatoio. È, forse, la più sottile tra loro, ma anche, l’unica che non smette di sgomitare. Mai.

Un sottilissimo strato al di sotto, trovi un’altra Michela. Ha poco più di tredici anni e aspetta che suo papà e i suoi fratelli tornino a prenderla. È furiosa, brucia le tappe e si vende al mondo. Non le interessa l’amore, le preme essere raccolta. Che siano quelli sbagliati a farlo però, così che la fuga si mantenga sempre semplice. Negli anni, ha affinato l’arte della fuga e ad oggi, nessuno è ancora riuscito a prenderla.

Al di sotto di tutti gli strati, risiede la Michela che scrive. Lei è libera da legacci familiari, dagli schemi sociali, libera dalla morale che le altre non comprendono, eppure, seguono, libera finanche dalla fisicità e vive nei cuori di tutti quelli che la leggono. Sa di poter dire di sé che possiede solo tre cose, una figlia, un cane e la scrittura e, in verità, tanto le basta. È selvaggia, perennemente innamorata. Lei danza con i lupi ché non teme lo scontro fino a che le resteranno pagine da riempire.
È la Michela del nucleo, quella dello strato basale, le tiene tutte strette al cuore, le dirige in questa vita che troppe volte si complica. Litiga spesso con ognuna di loro, e ad ogni pace fatta è un nuovo strato e una nuova Michela. Le stringe la mano e gentile le sussurra:
“Benvenuta, quando avrai finito riconsegnami la chiave e chiudi la porta sul mio cuore” poi con sguardo serio aggiunge “E, per favore, sii più gentile con la prossima te”!



Michela


domenica 28 ottobre 2018

L'amore al circo.

La vita sentimentale dopo il divorzio è una giungla. Uno crede che dopo aver messo fine a un matrimonio, ad una promessa di eternità che avevi scomodato persino Dio a testimoniare, dopo aver distrutto una famiglia, dopo aver platealmente fallito nel più banale dei concetti dell’età adulta: restare fermi, tu abbia capito il segreto per affrontare la vita, tranne poi scoprire che non ci avevi capito una sega. Nemmeno a questo giro di giostra.
Ti ritrovi, quindi, a quaranta anni nel mezzo di una vita che assomiglia sempre più al momento in cui aiuti tua figlia di sei anni a fare i compiti di scuola e lei non riesce a star seduta. Un dondolio incessante con picchi di noia altissimi, seguiti da inevitabili momenti di distrazione e l’incapacità a fermarsi.
Non puoi, non vuoi star ferma, perché non vuoi, non puoi guardare al tuo dolore.
Quello che puoi fare è ingranare la marcia e lanciarti nella mischia; una mischia che vista da fuori sembra divertente e che, invece, nella maggior parte dei casi nasconde frustrazioni e confusioni peggiori di quelle che vivevi durante l’adolescenza e, in effetti, dicono che i quaranta siano i nuovi venti. Il cuore ragiona con la logica dell’adolescenza, l’ormone anche, ma il cervello è pur sempre quello di un adulto con un nemico enorme dalla sua: il tempo ed è, forse, questo il conflitto peggiore. Almeno un adolescente innamorato, ha il tempo dalla sua. Il tempo di amare, il tempo di pensare di capire per poi scoprire di non poter mettere logica al cuore, mai, nemmeno quando sarebbe auspicabile al mantenimento della tua stessa integrità. Un adolescente ha il tempo di aver paura della solitudine, noi no. Al contrario, abbiamo scoperto quanto sia preziosa la solitudine. Noi che fino a poco tempo fa, pensavamo saremmo morti di solitudine e i nostri vicini lo avrebbero scoperto dopo giorni, solo per la puzza della decomposizione del cadavere provenire dall’interno del nostro appartamento, ora, invece, siamo quelli che si sta meglio soli con le proprie idiosincrasie, piuttosto che nella posizione in cui devi convivere e tollerare i difetti di un altro, eppure siamo qui che vogliamo innamorarci, vogliamo farci male. Vero? Siamo una banda di nevrotici o cosa?

L’amore è un vizio che fa male. Se vivessimo in una civiltà più evoluta lo venderebbero in sigarette la cui confezione recherebbe il monito L’AMORE UCCIDE, invece, ci lasciano come mine vaganti nella consapevolezza che stiamo facendoci male, al freddo, fuori un bar fino all’ultimo tiro.

So che molti di voi sanno di cosa parlo. Il brutto del divorzio, della separazione, della rottura, non è l’ovvietà del mettere fine a un amore. Non c’è nulla di più morto di un amore morto. Fatto il funerale, sei in grado di ripartire. Il problema non è nemmeno il dolore che rechi ai figli, semmai è un’aggravante, ma per lo meno, verranno su con la consapevolezza di avere genitori umani ed imperfetti o questo è ciò che ci raccontiamo.
Il problema del post divorzio è mettere ordine in te, è scoprirsi incapaci di restare, perché quel divorzio, quel documento che dice “fine” al tuo matrimonio, sancisce un confine, una linea invisibile che non vuoi più, mai più valicare. È questo che ci impedisce di restare? Non lo so.
Restare è l’unità di misura dell’amore adulto e nessuno di noi, è più capace di farlo.
Ci potete riconoscere, mano in tasca, drink in una mano e piede in posa di fuga.
Siamo casi umani nel circo di paradossi.

C’è quello che lo trovi fuori un bar ed è la nota stonata. Chiaramente in un luogo alieno al suo originale progetto di vita dove regnava l’ordine e che ora, combatte l’ira nei confronti del fato, della vita, della moglie, di se stesso, per essersi concesso di arrivare fino a dove si trova oggi. Annaffia il tutto con un paio di Spritz di troppo. È un uomo che sa bene di essere solo di passaggio in questo tendone. Sa che quando avrà imparato a domare i suoi leoni, avrà perso l’interesse per il carrozzone di artisti circensi.

C’è quello che per superare l’onta dell’essere stato abbandonato, deve misurarsi con tutti. Con se stesso, con l’amico che le aggancia tutte, con la palestra, con la capacità di bere come avesse ancora venti anni. Lo guardi e sembra leggergli in volto che ogni piccola vittoria, ogni tacca aggiunta alla sua cintura, è una manifesta metafora dei ceffoni che vorrebbe dare alla ex. Ma è un pagliaccio, non perché faccia ridere, ma perché dei clown porta la medesima malinconia.

C’è il sovversivo. Diamine lui ti confonde. Lo capisco. È uno che ha attraversato il dolore. È uno che lo vedi e ti sembra vada in giro con un cartello che dice danneggiato, maneggiare con cura. Lo guardi e ne vedi i fantasmi, sai che lui ti guarda e vede le stesse, identiche cose. Due matti che girano il mondo a volto scoperto, cercando di proteggersi come possono. Quello che ha sovvertito le regole del dolore. Che si è fatto male e che sa che d’amore non si muore. Lo sa per certo. Per questo è così pericoloso. Che tu vorresti correre ad avvisare le donne nel raggio di chilometri. Scappa amica, non ti far trascinare in un turbinio che già sai vi consumerà entrambi. Ci sei già stata lì. Lo sai com’è. È un escapologo, si libererebbe anche di noi amica, e noi siamo troppo in là per queste guerre strategiche. Per questo, resta dove sei e non ti muovere. Lascialo a quelle che hanno bisogno di dimostrare quanto sono sirene.

Poi c’è quello che si trova una donna sulle ginocchia e tanto basta. Lui si commenta da sé. Prova a chiedergli il nome di quella donna.
Il sempre verde Peter Pan che ancora si crede un figo e che, invece, fa desolatamente ridere. Lo riconosci amica, non è vero? Pensa, c’è ancora qualcuna così tonta, da credere di essere in grado di cambiarlo, perché lui aspettava solo lei e il suo amore!

Maschi e femmine, quarantenni e giù di lì.
Le donne. In quello stesso tendone da circo, ci siamo anche noi, travestite da teenager solo con i muscoli che si arrendono alla forza di gravità. L’ultima volta che eravamo andate a in discoteca c’erano i roboanti anni 90 con la loro musica commerciale, ora si balla la Trap e fingiamo di sapere di cosa si stia parlando. Ma che fatica, bimba! Come se dover vendere la parte giusta di noi, ogni giorno, al lavoro e nel mondo, non fosse già troppo.
Per noi, la storia è diversa. Lo sappiamo. La sottile linea tra il si vuole divertire e il è una mignotta, la conosciamo tutte. Non è vero? La solita vecchia solfa del se l’è voluto lei a prescindere.
Prima paga pegno perché hai la vagina, poi se ne riparla. Forse. Per noi, anche il tendone da circo è un posto difficile.

Tra di noi puoi trovare quella che ho fatto la moglie, ho fatto la mamma, ora tocca a me, qualcuno dovrebbe dirle che non toccherà mai a lei fino a quando non si concederà di conoscersi e che quel Campari finge solo di esserle amico.

C’è quella che mentre ti parla, è in posizione radar. Ho quaranta anni e circa duecento uova ancora attive. Amica, fanne una frittata. Ascolta il mio consiglio.

C’è quella che gioca a fare Desdemona e, in qualche modo, trova sempre un coglione, pronto a fare Otello.

Quelle che quaranta anni e un giorno, ma ancora al cesso insieme.

E, in fine, quella che combatte con tutte le sue forze, non il tempo che le rimane per procreare, quanto il tempo per trovare marito. Un continuo giro di mosca cieca per accaparrarsi un uomo che la faccia sentire meno sola.
Lei non lo sa, ma la solitudine, è una condizione della nostra mente.
Sono stata sola la maggior parte della mia vita e i momenti durante i quali mi sono sentita più sola sono stati, sempre, quelli in cui ero in coppia perché, cosa c’è di più triste del condividere lo spazio fisico della tua vita con un essere umano col quale non condividi l’unico spazio reale, quello mentale? È per questo che io nel mio spazio mentale non faccio entrare nessuno. O quasi. Ci provo almeno, anche se di tanto in tanto, qualcuno è in grado di insinuarsi nella mia mente, di norma lì iniziano i casini, amici. Una volta l’ho aperto ad una donna. Ho pensato che sarei stata al sicuro con lei perché, appunto, era donna e insieme avremmo indossato le nostre lenti da donna e avremmo guardato al mondo mano nella mano e, invece, ha pensato bene di pugnalarmi dritta al cuore. Quindi, ho creato un post it gigante e l’ho appeso alla porta del mio cervello, appena dietro la sezione sogni e progetti, tra la voglia di scrivere e l’incapacità di farlo, recita NON FARLI ENTRARE, a caratteri cubitali. Fino a quando non comprenderò che il mio unico limite sono io, fino a che non capirò cosa fare di me stessa e della mia incapacità di fermare gli altri quando mi feriscono, fino a quando non smetterò di fornire a tutti le armi giuste per mettermi al tappeto, io quello spazio, lo terrò chiuso a doppia mandata. Questo non mi impedisce di innamorarmi. Ma mi impedisce di implodere ogni volta che mi innamoro. Perché se è vero che il mio cuore è indistruttibile, il mio cervello, invece, è la cosa più fragile che ho e devo difenderla.

Da qualche parte nel web, ho letto che il segreto per stare con qualcuno è mantenere lo stesso passo, non guardare nella stessa direzione, non rincorrersi, non mirare al medesimo traguardo. A giudicare dai like, in molti erano della stessa opinione. Non io, o meglio, non credo sia la visione che una donna divorziata, con una figlia e un cane all’attivo, possa mantenere sull’amore. Nella fase della vita in cui mi trovo io e nella quale siamo in molti, neppure mantenere lo stesso passo basta a trattenerci. Il percorso può anche vederci affiancarci, ma alla fine, inevitabilmente il mio passo o forse il suo, più spesso il mio, si fa più veloce o forse più lento (c’è poi una reale differenza tra gli opposti)? E sono convinta che, se non è mantenere lo sguardo nella stessa direzione e se non basta la condivisione di un’emozione (quest’ultima di certo no), allora è ancora la meta, l’unica cosa che conta. Il problema della meta è che, di solito, lì c’è un premio individuale, non di squadra, ad aspettarci.
Ecco, io della mia meta so molto poco, ancora. Non so se, ad esempio, sia una meta che ha necessariamente bisogno di una metà. Sono una che è abituata a viaggiare sola e leggera, allora forse, sono destinata a raggiungere da sola il traguardo e lì, forse, stringere la mano ad un altro corridore solitario come me, quando sarò grigia e vecchia. O magari, ci arriverò stringendo la mano che si posa attualmente sulla mia. So però che quel giorno avrò superato il mio stesso limite, avrò saputo sublimare la mia indipendenza e il mio bisogno di solitudine in valori aggiunti e avrò insegnato a me stessa e, quindi, a Virginia, che bastarsi è il più grande atto di amore possibile e insieme cammineremo, mano nella mano, mirando ad un altro traguardo, condivideremo la medesima emozione, partendo dallo stesso punto. Non ci rincorreremo, non ci aspetteremo, ma avremo lo stesso passo.

sabato 13 ottobre 2018

Sull'orlo di un precipizio, col sole in fronte. Ovvero: quello che mia figlia deve sapere sull'amore per se stesse.

C’è una crepa in tutte le cose. È da lì che entra la luce.
Leonard Cohen
(attribuita)

Ci sono chiusure che fanno più male di altre e porte che resteranno, invece, per sempre solo socchiuse su quel dolore muto che ti ricorda di non aver terminato la tua trasformazione.
Al mattino ci vedi filtrare la luce attraverso e, per un momento, pensi di essere tornata, ma in realtà lo sai di essere già altrove.
In cosa ci trasforma il dolore? In una migliore e più forte versione di noi? Nel noi 2.0? Come se, aver sofferto abbastanza, garantisse al nostro software un aggiornamento di sistema e lo rendesse migliore? Senza cadute di linea, sempre connesso. Senza bug. Liberi dagli errori di scrittura del nostro codice interno.
O, invece, il dolore ci rende meschini? Duri, egoisti perché, in fondo, cosa ci resta di umano tolta l’empatia?
Quando si può dire poi, che il dolore è stato abbastanza?
Su che scala di sopportazione devo basare il ragionamento? Sulla tua? Perché se partiamo dalla mia, ho paura che non smetteremo di soffrire.
Alcuni sostengono, con un guizzo della discussione particolarmente ironico che, il dolore rende ribelli. Avessi questa capacità di assolvere me stessa, vivrei di certo in maniera più leggera la mia vita. Nella realtà, non so da che parte sono. Ribelle? Forse, mi aiuterebbe pensare di me: Michela, hai attraversato le fiamme e ora sei nella resistenza. Sei una ribelle.

Chi non soffre di sindrome dell’abbandono, pensa che la cosa sia superabile con la presenza. Della serie, ci sono non mi vedi? Non me andrò mai. Tranne poi disattendere le tue aspettative quando, inevitabilmente, vanno via. Sebbene la capacità di restare, -da me riscontrata solo in due esseri umani (di cui una è mia figlia) e nel mio cane,- sia una dote che mi sorprenderebbe in maniera piacevole, non è con la presenza che si risolve la “cosa” come la chiamate voi per liquidare il disagio il più velocemente possibile, ché già abbiamo tanto da fare, ci manchi tu e le tue turbe psicologiche.
Se devo dirla tutta, a me piacciono le distanze da colmare, non ho bisogno di saperti fisicamente accanto a me per non nutrire il terrore che poi mi abbandonerai. Anzi, io devo stare sulla distanza per restare, altrimenti, scappo via in un perverso gioco inverso delle parti, per non concedere a te, l’oggetto del mio desiderio, di lasciarmi sola. È la vicinanza mentale, nel mio caso, a farmi sentire che ci sei. Questa, è una vicinanza molto rara e quando la percepisco, amo perdutamente.
Il vero casino con quelli come noi è che la paura di essere abbandonati, non passa mai, solo che negli anni, ognuno di noi trova il modo di farci i conti ed è allora, che diventi il supersayan della solitudine, a livelli talmente alti, da considerare la solitudine, un esercizio di contemplazione mistica.
Ogni randagio, sa di cosa parlo.
Alcuni sono diventati impenetrabili. Vero? Il cuore inespugnabile, trincerato al sicuro dietro anni di esercizio alla dura regola dell’orgoglio e dignità. Lo sguardo fiero che guarda già oltre, prima ancora di vederti. Vi conosco, camminate impettiti nella vita ché nulla può toccarvi. Siete forti, o volete farci credere così, siete audaci o incoscienti forse, siete quelli che al tavolo da gioco tengono banco.
Altri, adottano la filosofia di Forrest. Loro corrono e non si fermano. Sono in fuga perenne dalle loro vite perché, essere abbandonati ancora una volta è un’onta insopportabile.
Poi ci sono io e con me, altri milioni di persone, immagino.
Io sono proprio stronza. Cammino con questo cuore gigantesco sulle spalle in bella vista e lo regalo ad ogni creatura vivente me ne chieda un po’. Non ho paura di ammaccarlo. Certo, è frangibile, proprio come i vostri, eppure non si spezza mai. Si gonfia. Quadruplica la sua dimensione quando siamo innamorati e si ridimensiona quando ci feriscono, ma resta sempre lì: allo scoperto, ma in trincea. Sono un soldato dell’amore. Lo sono diventata in venticinque anni di abbandoni. Quando però qualcuno mi da l’idea di essere sul procinto di andare via, non è un gran problema per me. Ne prendo nota. Sento l’orgoglio bruciare che suggerisce al cuore di chiudersi, trincerarsi appunto e volare altrove. È un campanello d’allarme, avete presente? L’orgoglio mi dice di non perdermi, di non lasciare che la tua assenza sia un problema per la mia vita ed è per questo che, posso tranquillamente guardarti mentre ti porti via da me. Io posso restare a soffrire, perché soffro nel corpo e nella mente, ma non nel cuore. Puoi star certo, che quello è già altrove.
Il mio cuore è uno scudo scintillante, un diamante indistruttibile. È indomito e selvaggio. Non conosco un altro modo di stare al mondo, se non col cuore in mano, in piedi, sull’orlo di un precipizio. Alla luce calda del sole. Nella verità. Ad ogni costo. Questo mi rende impegnativa. L’ho accettato. Va bene così. Meglio questo, dell’apnea. Mi piace essere chiassosa, invece. Sbaglio tanto, sbaglio sempre, ma sono arrivata ai trentasei anni dura e pura e questo, mi racconta qualcosa di me. La vita è fatta di sentieri. Alcuni si percorrono mano nella mano con qualcuno. Non esiste un motivo reale. A volte, è solo che fare la strada in compagnia è piacevole. Tutte le mani che ho lasciato andare, appartengono a volti che posso guardare dritti in faccia, senza l’ombra della vergogna delle mie azioni, che pure a volte sono state ignobili, perché sono stata sempre vera.
Vedete, il fatto è che sono sotto la severa lente di ingrandimento di una piccola donna di sei anni. Mai come in questo momento della mia vita, sono quel che faccio e non quel che dico. Ho la necessità di dimostrarle che, abitare la verità è l’unica scelta possibile, anche quando questa ti rende impopolare agli occhi di quelli che dicevano di amarti. Anzi, soprattutto in quei casi. Forse li perderai, ma ne acquisterai in amor proprio e, alla fine dei giochi, l’amor proprio, è tutto ciò che ti resterà. Quello che mi preme la mia V possa apprendere, è il suo valore inestimabile. Voglio che comprenda che più le sarà detto che richiede troppe attenzioni, che è complicata, ingestibile, incontentabile, più non sarà lei il problema, ma la mediocrità di chi le sta accanto in quel momento e allora, sarà meglio alzare un po’ l’asticella del suo standard qualitativo e diventare più selettiva. Voglio essere brava, almeno in questo. Come madre voglio che il mio messaggio le risuoni chiaro per sempre. Ad ogni inevitabile delusione, ad ogni assenza e, perfino ad ogni abbandono che dovrà subire perché il mondo è fatto così, voglio che senta la mia voce sussurrarle: non sei troppo tu, sono troppo poco loro.

Ho trentasei anni. Ho sofferto molto, non mi spaventa pensare a quanto ancora soffrirò, perché ho imparato che la maggior parte degli abbandoni vengono a ricordarci non quello che NON siamo, quanto, piuttosto, quello che siamo.
Io abito la verità. Amo ogni persona che scelgo con ogni fibra di me. Sono frangibile e ne sono consapevole, è per questo che non mi spezzo.
Mai.
Per V, per me e per quelli che abitano la verità.

Col sole in fronte.

giovedì 23 agosto 2018

Compassione di sé e perdono. Ovvero, quando sei spietata solo con te stessa e non ti dai mai tregua.

Non importa quanto io riempia di persone, impegni, fiori o di mare la mia vita. Alla fine, le arsure e i vuoti mi raggiungono sempre e, a me, non resta altro che attraversarli perché è così che faccio da tutta una vita. Sono momenti di profonda fragilità, durante i quali ho paura di respirare, di vivere, a livelli talmente paranoici che la morte mi sembra l’unica soluzione possibile. Più sono nel vuoto, più chi mi ama cerca di trascinarmi via da lì. Fa più paura vista da fuori, non è così?
“Sei triste”? Ho perso il conto delle volte nelle quali me lo sono sentita chiedere. Cosa è la tristezza in fondo se non l’assenza di gioia? O, forse, essere tristi significa semplicemente sentire la pena e la fatica di vivere? Dove sono le sfumature quando ne hai bisogno?
“Sei felice”? Nel senso che non sono triste? Io, per la maggior parte del tempo, sono e basta. L’esigenza di dover sempre dare un nome ai sentimenti, la capisco perché non sono mai a corto di parole, ma allo stesso tempo mi genera ansia. Mi mette in subbuglio dico davvero. Quando sento, io sento tutto che spesso equivale a non sentire niente. È più un vivere nel farneticante terrore che qualcosa di tremendo si sia nascosto dietro un angolo della mia vita. Ne ho voltati a decine di migliaia, sono ancora in piedi, eppure, sono certa che al prossimo troverò quello che mi manderà in mille pezzi. Vivo, dunque, nell’attesa? La maggior parte del tempo sì.
I primi ricordi di me che faccio pensieri così oscuri risalgono all’infanzia e per oscuri intendo sentire attraverso ogni filamento di carne che non hai voglia di sorridere e, nonostante tutto, farlo perché la gente… oppure, non comprendere il mondo che ti circonda, desiderare solo di correre a nascondersi in un cantuccio e non uscire mai più, invece, mostrare il tuo sorriso più spassoso perché va tutto bene, va tutto benissimo!
È una sensazione di paralisi che in qualche modo impari a nascondere a tutti, persino a te stessa.
È un po’ timida dicono di te durante l’infanzia, è di natura malinconica durante la tua adolescenza, è depressa quando ormai hai quasi quaranta anni. Scomodando termini clinici come se il solo enunciarli servisse ad “aggiustarti”, a dare un nome a questa letargia emotiva che il mondo detesta vedere in te. Tua madre che ancora oggi non riesce a capire cosa ci sia che non vada in te e quando ti vede inabissarti alza gli occhi al cielo.
Non saprei dire quale sia la verità. So che lo stato di inattività emotiva e fisica è una parte di me preponderante e, credetemi, la odio più di quanto la detestiate voi che mi guardate nella mia immobilità. L’ho nascosta a lungo e ho creduto di combatterla con ogni strumento a mia disposizione, spesso quelli più sbagliati. Come in quel gioco nel quale c’è questo campo con delle buche e tu devi scoprire da quale buca salterà fuori la talpa. Sei lì, che cerchi di convogliare tutte le tue energie in quel maledetto martello in un perfetto connubio tra cuore e cervello. L’ho sempre trovato terrificante. Una buca lì, aspetta, la riempio prima che spunti la talpa, con una sigaretta che copra il disprezzo che nutro per me stessa a soli dodici anni, ora sì che mi troveranno una che non ha tempo per avere paura di crescere. Oh, guarda lì un’altra buca, ho proprio lo spinello adatto e per quell’altra ecco la birra giusta o sbagliata, poco conta l’importante e non sentire più di vivere in un corpo di vetro avendo un’anima di piombo. E poi parlare e parlare e parlare e sovrastare il silenzio e i miei sto alla grande! Sto alla grandissima. Nutrire l’illusione che i buchi vadano riempiti con l’amore degli altri e lanciarsi in un’indefinita sequenza di storie d’amore sbagliate non perché sbagliati fossero loro, ma perché sbagliato era ed è, non bastare a se stessi. E cosi via, via fino alla voragine che credevo di colmare con un matrimonio sbagliato con una persona meravigliosa e la maternità che, contro ogni mia aspettativa, mi sono scoppiati in faccia come due enormi granate. Che illusa! Sono una cazzo di fetta di groviera! Sono la stessa ragazza di sempre, con i suoi buchi di sempre che cerco di imparare a rispettare ogni singolo giorno, esercitando la comprensione, la consapevolezza e la compassione per me stessa. Ma cado, spesso. Troppo. Perché è, azzarderei dire, naturale essere empatica con il resto del genere umano, ma quando si tratta di me tutto cambia perché che diritto ho io di lamentarmi in fondo? Cosa mi manca? Come oso scomodare termini quali depressione, infelicità, io che ho tutto e, diciamocelo, molto di più di quel che mi sono guadagnata? Allora, mi convinco che è solo la mia natura, che la paralisi che sento anche ora mentre sono qui a scrivere è solo parte del mio normale ciclo vitale e nel raccontarmi questa solfa, è un po’ come prendermi a sberle da sola, lo so, ma non mi sembra di avere molta scelta. Elimino la scrittura, mi dedico solo alla mia piccola V, mangio solo cibo alcalino, elimino l’alcol e, nella privazione, mi illudo di averla risolta.
Quando, però, nonostante la mia irreprensibile condotta, i vuoti tornano, mi sento confusa, arrabbiata e più di tutto delusa da me stessa che, ancora una volta, ho dimostrato di non essere in grado di vivere una vita normale.
Lo so, la normalità è sopravvalutata. Lo so, sentirsi giù va bene, ma il mio abituale modo di reagire ai vuoti, si manifesta nel bisogno di controllare tutta la vita che mi circonda, inclusi il mio corpo e le mie emozioni. Se sono in controllo posso prevenire tutto: il dolore, l’abbandono e, più di tutto, posso in caso di errore, biasimare solo me stessa senza dover trascinare altri nel mio tribunale della ragione, di norma integerrimo. Roba che Kant impallidirebbe.

So che è tutta un’enorme balla e che più mi illudo di controllare, più sono una trottola impazzita. Sono consapevole di dover dimostrare compassione a me stessa, ma per quanto io sappia che le aspettative che nutro per me siano irrealizzabili e, comunque, rasentino il patologico per qualcuno che voglia vivere una vita serena, mi risulta impossibile farlo perché, semplicemente, io sono così. Non posso ammettere a me stessa di essere depressa, perché io non ammetto di poter fallire.
So che essere depressi non significa fallire, perché, tecnicamente, è qualcosa che accade all’interno del delicato equilibrio chimico del cervello sul quale non ho la minima speranza di avere controllo, ma è ciò che sento e così, ritorno alle arsure, ai vuoti, ai cicli e alle inquietudini.

Elimino gli zuccheri
Elimino l’ alcol
Elimino la scrittura
Mi tatuo qualcosa di nuovo
Faccio meditazione
E resto sempre qui ad esercitarmi con la compassione per me.
O, almeno, cerco di imparare.
Ogni, singolo, giorno.

giovedì 19 luglio 2018

I basilari.

È una verità universalmente riconosciuta: i bambini sono la più grande gioia nella vita di uomini e donne che superata la fase #PerdonameMadrePorMiVidaLoca decidono di metter su famiglia e, in questo metter su, ignorano l’inferno in terra che stanno per attraversare, quindi, tenuto conto della più elementare conoscenza della cosmologia dantesca, sarebbe forse più consono dire metter giù, inabissare, o, ancora, affondare o, più semplicemente, seppellire la loro voglia di vivere per almeno sedici anni a seguire da quella notte brava durante la quale, si sono immaginati a correr felici per campi di girasoli con i loro pargoletti. Anzi, no, aspettate un secondo, mi dicono dalla regia che gli anni non sono sedici perché la crisi e tutto il resto, ma almeno ventotto. Sono pur sempre i figli di noi choosy questi qui. Ma noi al principio non lo sappiamo, continuiamo a sfornare figli, per nove mesi ti immagini quei piedini cicciottelli, le manine paffutelle e il profumo di buono, quel profumo che non hai mai sentito prima e che non sentirai altrove: profumo di vita nuova. Poi, partorisci. Ti ritrovi un Gremlins tra le braccia: dolcissimo alla vista, un piccolo demone nella verità dei fatti. Signori e signori, questo è il segreto ultimo dell’evoluzione perché diciamolo pure, con la consapevolezza del dopo, uno col cazzo che li farebbe!
Abbandonate ogni speranza voi che entrate: benvenuti nel meraviglioso mondo della genitorialità. Guida semi seria ai basilari.
Avete mai googlato operazioni basilari per mantenere in vita un cucciolo di essere umano? Io, l’ho fatto. Sono una maniaca del controllo, più che del mio istinto, mi fido dei libri. Se cerchi in rete, dal neonato all’infante, le risposte differiscono pochissimo. Ora, prima che partano le tempeste di insulti e le chiamate agli assistenti sociali, anche io ho imparato l’arte della finzione. Ci vado anche io fuori scuola a prender parte alla commedia “Essere madre è un Carnevale di Rio”, a volte poi sostituita dal sempreverde melodramma “Mia figlia è un piccolo raggio di sole che viene ad illuminare le mie giornate con le sue domande curiose e sempre pertinenti sull’ineluttabilità del tempo che scorre e su chi sia Dio”, ma non prendiamoci in giro. Per i prossimi due minuti, secondo più secondo meno che impiegherete a leggere questo piccolo sfogo, io decido di abbassare il velo di Maya su questi piccoli esseri umani che ci piace chiamare bambini e vi racconto la verità che so per certo non essere solo mia, quella che ho sentito ai peggiori aperitivi tra madri, quelli che al secondo americano ti vendo il figliolo per un pomeriggio libero. La verità ultima è una. Non ci sono scappatoie. I bambini sono dei rompi balle. Oh, via l’ho detto! Ora, preso atto di questa grande verità, col petto più leggero per aver detto quella verità nascosta in fondo al cuore, scevri dal peso della madre perfetta che vive in sordina alla moglie perfetta, cerchiamo di mettere i puntini sulle i e aiutiamo quella nostra amica che ancora non sa cosa significhi essere genitore e che più presto di quanto creda, si ritroverà a desiderare di lanciarsi da un dirupo perché, la paura di schiantarsi sarebbe nettamente inferiore a quella che prova ora, mentre guarda suo figlio neonato che ancora non ha perso il moncone del cordone ombelicale perché lei è, ovviamente, o così crede, un’incapace. Mi sembra di vederla che frenetica con un pannolino in mano, la poppa che le perde latte, due ore di sonno sulle spalle, si chiede: cosa cazzo mi aveva detto di fare l’ostetrica? Amica, ma anche amico mi auguro, ripeti con me: non è difficile come sembra. Per mantenere vivo un essere umano devi conoscere i basilari. Una volta fatti tuoi questi, il resto vivilo con leggerezza e tieni sempre a portata di mano una bottiglia di vino. A mio avviso, i basilari, sono quattro:
-lavarlo
-vestirlo
-nutrirlo
-metterlo a dormire.

Lo so, uno legge una lista di quattro micragnosi punti e si fa l’idea che sia semplice, tranne poi irrimediabilmente scoprire, che essere genitori, più che assomigliare ad una check list da spuntare, assomiglia ad una vera e propria Guerra Santa, ma come in ogni guerra, anche in questa, c’è bisogno di strategia. Essere in due di certo aiuta, perché loro sono piccini, ma credetemi studi recentissimi affermano che più la storia umana evolve, più gli esseri umani nascono dotati di cazzimma. Giuro. Non è come quando eravate piccoli voi. Dimenticate i bambini che nei viaggi in auto, giocavano a trovare 3 numeri uguali di seguito sulle targhe per ore e ore. Questo è il bambino italiano 2.0 un ibrido tra un bambino normale (la notte, quando dorme) e un hacker che per hobby irrompe nell’internet banking dei genitori. Mentre mangia pane con la nutella. Mentre mangia pane con la nutella e guarda i tutorial su Youtube. Lo so che sapete di cosa sto parlando. C’è tutto un altro codice linguistico, ad esempio. Avete provato a comunicare con un bambino di sei anni ultimamente? No, perché è tutto un susseguirsi di citazioni a metà strada tra Kant e Maria de Filippi. Sono la generazione Youtube, dove anche attraverso il filtro parentale, trovi video documentari che vanno a braccetto con tutorial di gente matta che gioca. Stiamo parlando di bambini il cui gioco preferito è guardare la gente che gioca su Youtube. Houston, abbiamo un problema grosso qui.
Io parlo moltissimo con Virginia, perché entrambe soffriamo di un grave caso di incontinenza verbale. Spesso mi devo fermare per obbligarmi a pensare che questa bambina dal vocabolario particolarmente ricco (ma che non ha ancora imparato l’uso del se ipotetico) ha sei anni, non trenta come me. La sento parlare con tranquillità di argomenti che so per certo non aver mai toccato con lei e poi le sento dire che l’ha imparato alla tele o su internet. La guardo muovere per aria le mani, difendere con tenacia le sue idee, imporre il suo volere e sono spaventata. In primo luogo, di non essere pronta a regalare al mondo tanta meraviglia e, inoltre, che il mondo la sporchi troppo presto.
E non siamo noi genitori. Uscite da questa trappola prima che possiate. Non fatevi convincere dai nonni (capitolo a parte) che siete voi ad essere deboli. NO. Urlatelo forte. Non siamo noi ad essere deboli, sono loro ad essere dei piccoli criminali informatici. A sei anni, non nutrivo nemmeno la consapevolezza di avere una voce per oppormi al volere degli adulti. Di tutti gli adulti. Non c’erano adulti di serie A e di serie B. I miei fratelli maggiori, all’epoca adolescenti, erano già adulti. I bambini di oggi fanno terrore. Sembrano trentenni intrappolati in corpi troppo piccoli. Mi dico che poi migliora, ma poi mi ricordo di cosa mi diceva mia madre quando mi disperavo perché Virginia non faceva cacca le fatidiche cinque volte al giorno che ti raccontano al corso preparto: figli piccoli, problemi piccoli. Figli grandi, problemi grandi. Quando me lo diceva mi faceva infuriare, non lo capivo, sembrava solo un modo affettuoso, ma pressapochista di liquidare le mie ansie e la sensazione che mi restava era solo una: paura. Tutto ciò che mi domandavo era “quando capiranno che faranno meglio a togliermela prima che la rompa”? Poi, nel giro di pochissimo, ho capito. Nel mentre però, mi separavo, divorziavo, prendevo un cane, traslocavo, cambiavo lavoro e mia figlia finiva le materne. Il tutto, pensate un po’, mentre la vita proseguiva per i fatti suoi, senza che lei morisse o io la rompessi, almeno non in maniera evidente. Per le crepe dell’ego tocca aspettare l’adolescenza e l’età adulta, quando sul lettino del suo analista, mi descriverà come una stronza cinica che le anteponeva la scrittura e che le ha impedito di andare in giro vestita da Barbie Pole Dance quando aveva cinque anni e si scoprirà, con tutta probabilità, che questo le ha impedito un percorso intimo che fosse equilibrato e sano. Voglio dire, alla fine è sempre colpa delle madri oppure Freud, non ci aveva capito una sega. In ogni caso, durante questi sei anni di conoscenza con mia figlia, ho affinato l’arte di scegliere le battaglie da combattere. Le mie, sono solo le quattro che ho elencato. E ora, per dimostrarvi che facevo sul serio con la cosa dello stigma della madre perfetta e che mi sono stufata di rincorrere un ideale che non potrò mai raggiungere non perché io sia particolarmente incapace, ma perché è inarrivabile in quanto inesistente, vi racconto la nostra routine come amano chiamarla i sedicenti esperti di genitorialità in rete.

-LAVARLA: più o meno funziona così -“Amore, andiamoci a lavare”
-“Noooooo, mamma nooo ti prego non farmi lavare non mi voglio lavare. Ti prego, ti prego ti pregooooo” la scena di norma continua con me che la trascino al bagno, la spoglio; lei urla che mi odia che non ho il diritto di scegliere se lei si debba lavare o meno, io la lancio sotto la doccia e non appena la prima goccia di acqua sfiora il suo beato cuoio capelluto…
-“NOOOOOO, mamma nooooo lo shampoo no” non rispondo, di proposito, perché anche sull’orlo di una crisi di nervi, non le voglio mentire. Questa è l’unica promessa fatta a me stessa il giorno in cui è nata e l’ho guardata per la prima volta. Lei lo sa. Lei lo sa sempre. Afferro la boccetta di shampoo, sono il gladiatore al mio segnale scatenate l’inferno. Ne usciamo stremate. Entrambe, ma io di più. Riposiamo il tempo di arrivare al momento asciugatura capelli. E a questo punto ho solo una nota a me stessa da fare, ogni, singolo, shampoo: madri che non vi fate convincere a far tenere i capelli lunghi alle vostre figlie, avete capito tutto della vita!
-VESTIRLA: ecco qui ci sarebbe da scrivere un piccolo compendio. Sulla moda e dintorni. Di Virginia de Paolis. La mia bimba ha un’idea precisa, molto precisa di cosa HA STILE e cosa NON HA STILE. Di base, secondo lei io non ho stile, lei, invece, sì. Nel suo immaginario del mondo della moda, tutto ciò che è oscenamente tamarro, tutto ciò che sbrilluccica e la fa sembrare Edward Cullen al sole, meglio se anche catarifrangente ad un livello tale sia possibile riconoscerla da Giove, ha stile. Io, sua madre, colei che l’ha portata in grembo per 9 mesi facendole ascoltare solo Vasco Rossi, Nirvana e Foo Fighters. Io che l’addormentavo con Jeff Buckley, vesto solo total black e quando mi sento particolarmente di buon umore oso un blu navy, ma mai e poi mai stampe a fantasia. Capirete, quindi, che sulla questione stile, abbiamo dovuto lavorare un poco, trovando di volta in volta, nuovi compromessi. Abbiamo creato una prima netta divisione tra abiti Rock e da Principessa, per poi arrivare allo Chic-Rock e al Cheap Principesco. Quindi, se la mattina non ho intenzione di farla andare a scuola nei panni di una mini Drag Queen, devo mediare, cedendo sulle paillettes, ma che siano sempre e solo sul nero. Dio benedica la scuola pubblica e i grembiulini.
-NUTRIRLA: mia figlia ha digiunato per i primi sei anni della sua vita. Lo so, starete pensando che barba! La solita madre esagerata, forse, invece, penserete io sia una madre particolarmente degenere. Ebbene amici, non esagero e pur non essendo propriamente Wendy di Peter Pan, posso dire di averla mantenuta in vita. Forse, perché l’ho allattata a richiesta fino a quasi due anni compiuti, non saprei dire esattamente quale sia stato il motivo, ma fino a qualche tempo fa, il cibo non destava in lei la minima curiosità. Quando è andata al nido, io che sono una di quelle madri che tende a preparare al peggio le maestre, dissi loro che Virginia non avrebbe mangiato. Loro risposero con i loro sorrisi dolci e pieni di esperienza che tutte le madri dicevano così e che poi per emulazione, invece, i bimbi mangiavano tutti. Sorrisi con garbo annuendo. All’uscita pensai tra me e me che quelle donne, che poi avrei imparato a conoscere e apprezzare tanto, erano delle ingenue e che non conoscevano mia figlia. La prima parola che ha detto Virginia è stata NO. Il concetto di emulazione non la sfiora affatto. Virginia è nata sotto il segno del leone ed è un quattro che tradotto in un linguaggio a noi umani comprensibile suona così: STICAZZI e buona fortuna a tutti voi che entrate in contatto con lei! In un anno di nido e tre di materne, Virginia ha mangiato forse quattro volte, nel senso che di due volte in quattro anni, ho testimonianze fotografiche, del resto no. Vivo nell’ignoranza e da quando lo faccio, sto molto meglio. Oggi, a sei anni quasi compiuti, mangia dopo attenta vivisezione di quello che le passa nel piatto, ma è un continuo negoziare. –“un video per due pisellini”. Roba così. È diseducativo, lo so, ma il mio compito è tenerla in vita e farlo cercando di non incorrere in dipendenza da Xanax.
E, in fine, amici e amiche che pensate a quanto possa essere dolce il momento della ninna, vi racconto come funziona nella pratica (almeno a casa mia e di quelli onesti).
METTERLA A DORMIRE: dopo averla sapientemente fatta cenare alle 19.15 di modo che fino alle 20.00 mi illudo abbia avuto abbastanza tempo per continuare a fare il nulla che le piace tanto fare, al rintocco delle 20 e un minuto inizio a farla abituare all’idea che la giornata sia volta al termine.
L’idea, che ve lo dico a fare, non le piace per nulla. Ore 20.15 -“V. spegni la tele, metti il pigiama e vai a dormire”.
-“No". Lei il no lo dice per default. Virginia amore mi passi l’acqua? No. Virginia, tesoro santo, mangiamo? No. Virginia, cuore mio, vai a mettere le scarpe. No. Virginia, amore assoluto ed indiscusso della mia intera esistenza, facciamo la doccia. No. Virginia, miracolo della vita, io ti ho fatto e io ti distruggo, passami l’acqua, mangia, metti le scarpe e fai la doccia. Ecco, così per esempio la comunicazione funziona e quel no diventa, per miracolo, sì. È tutta una questione di trovare il codice linguistico giusto.
20.30 -“V cosa esattamente di SPEGNI LA TELE non ti è chiaro, amore santo?”
-“Ho detto, finisco di guardare l’ultimo episodio. Almeno” Ogni sera, annoto che con il se ipotetico, mia figlia non ha capito una sega di come si usi l’avverbio almeno.
E poi va più o meno di questo passo fino a quando una delle due non perde le staffe, di solito io. A quel punto, tra imprecazioni di vario genere, minacce di scuola militare e simili, spengo la televisione. Lei in lacrime per aver subito l’ennesima ingiustizia da questa madre troppo severa come ama appellarmi, va in camera sua sbattendo la porta e urlando al vuoto, al soffitto, a Dio a tutti meno che a me ben trincerata nella strafottenza del ruolo di comandante, che mi odia e che non è affatto giusto. Ora, nel letto chiede una storia. Dopo un’intera giornata di battaglie a pochi metri dal traguardo, lei ti chiede la storia, ma non una qualunque -“Mamma, una lunga però”. Compromesso, una lunga ma cinque pagine non di più, che poi diventano dieci, quindici fino a quando non mi addormento mentre leggo. Verso le 24 di solito, mi sveglio dolorante e me ne vado nel mio letto dove poi le arriverà intorno alle 5. Ed è così sempre. Ogni. Singola. Sera.

E, allora Michela cosa ci vuoi dire? Forse che sei pentita di essere madre? O, forse, che faremmo bene a non fare figli?
Onestamente, non ho risposte. Non so se sia meglio una vita senza figli. So che di sicuro è più semplice viver senza di loro. Tuttavia, diventare madre mi ha fatto esperire una condizione di vitalità mai provata prima. Essere così potente da creare la vita. Nutrirla dentro e fuori dall’utero e poi, fare la conoscenza di questo essere umano che è la traccia di te su questo pianeta. Essere responsabile per la vita di un altro essere umano è un viaggio difficilissimo che ti fa vivere con la costante sensazione di avere il cuore fuori dalla gabbia toracica. Senza difese. Ti domandi come tu possa anche solo pensare di riuscire a vivere così? E, invece, in qualche modo che non riesci a spiegare, ce la fai.
Alla voce istinto materno, il mio codice genetico risponde non pervenuto e combatto ogni giorno l’istinto di fuga più consono alla mia natura. Non credo nell’Istituzione famiglia così come ci viene presentata dal Vaticano, in quanto donna, non penso che mia figlia sia il meglio che la vita possa offrirmi o, almeno, non credo e, anzi spero non sia, tutto ciò che la vita possa offrirmi. Abito una vita che è al di fuori di mia figlia e maledico la mia condizione di madre con estrema (a volte troppa, lo riconosco) facilità tanto che, chi non conosce il mio congenito sarcasmo, mi fraintende. Per fortuna, mia figlia è dotata della stessa vena sarcastica e ha ereditato il mio senso dell’umorismo. Eppur tuttavia, non tornerei mai e poi mai indietro. Sono un essere umano migliore da quando la conosco. Eppure, mi ha insegnato ad amare e non c’è uomo che tenga. Eppure, mi sento onorata e benedetta per l’opportunità che è vedere crescere un figlio. Essere madre, anzi genitore, richiede una grande dose di coraggio. Una dose di coraggio inesauribile. Per fortuna, i figli ce lo insegnano poco alla volta ad essere così forti e quando lo fanno, ti fanno dubitare di te ogni singolo giorno, ma nello stesso momento del dubbio, trovi conferma del significato delle parole: sfida, vita, risate, amore e gioia sconfinata e allora io mi dico che ho i basilari. Io ho trovato i miei, ogni genitore ha i suoi. Ho i miei basilari e tutti i campi di girasole del mondo da attraversare mano nella mano con V. E va bene così.






venerdì 22 giugno 2018

Lettera ad un orco in fuga

Caro Orco,
il tempo trascorre lento da queste parti e ogni lancetta in movimento, è un ceffone in pieno volto.
Oggi è stato un giorno speciale o, almeno, così dicono. Compio trentasei giri di boa e il fiato si fa un po’ più corto. Mentre cerco di nuotare verso te, tu agiti le acque nuovamente spingendomi più in là. Diamine, sei un osso duro te lo devo riconoscere.

Hai ragione, lo so, è, anzi io sono, uno stillicidio. Non posso dire di biasimarti, io stessa trovo spesso la mia compagnia impossibile da tollerare. Sono una mina vagante, rendo poco praticabile il concetto tradizionale di amore. Voglio tutto o niente, a volte invece, voglio tutto e non voglio niente. Sono una narcisista, un’egoista, bestemmio molto e faccio incazzare perfino i Santi. Hai ragione a star fermo sulle tue posizioni. Vivo come ho sempre dovuto fare nel qui e nell’ora, al limite, cercando riparo nel passato, ma sono letteralmente incapace di pianificare o, anche solo, sognare un domani. Magari perché, troppe volte, quel domani ha bussato alle mie porte per poi scappare. O, forse, se la vuoi fare più epicurea di quel che sia, perché il domani non mi riguarda. Il domani è il mio grande assente. Hai ragione, lo capisco, ti capisco sono una donna in guerra mentre tu aspetti tempi di pace, ma la pace non è mai stata merce comune nella mia vita e, spesso, troppo spesso, finisco per non riconoscerla. Belli nomen omen. Nata dalla guerra di due cuori tanto grandi da divorarsi l’un l’altra. Cosa ti aspettavi tu da me? Sono nata per fare la guerra, ma saprei farti sentire la pace tra le mie braccia se solo tu me lo concedessi. Ma non vuoi, non puoi. Così ami dire. Hai ragione o, forse, no. Non so più nemmeno io quale prezzo dare alla possibilità reale che tu abbia ragione, che non ci sia futuro per due cavalli matti come noi.
Hai ragione a stare fermo sulle tue posizioni, se questo è quello che vuoi, ma io non posso stare ferma mentre mi fai male, non è nella mia natura. Non posso aspettare che piano, piano si riesca a fare a meno l’uno dell’altra. Ogni giorno trascorso separati, aggiunge una tacca alla distanza che so diverrà definitiva tra di noi. Eccolo il mio stillicidio, invece. Io che vorrei starti vicina dentro e fuori. Tenerti addosso perché questo è amarti: sentirti come fossi tu la mia pelle e, ogni volta che ti allontani, sentire come se qualcuno mi stesse strappando via la pelle. Fa male, ogni, dannata, volta. Ti strappi via e non so come impedirtelo. Un giorno ti sveglierai e non sentirai più il naturale istinto di telefonarmi, mentre io, testarda, sarò ferma sulle mie posizioni a cercare di ricucire una pelle ormai logora. Allora, mi chiederai, che si fa ora? Nulla. È una situazione senza soluzione di sorta. Devo attraversare il dolore. Tutto. In fondo, non conosco altre strade se non il centro dell’uragano per non sentire il vento. Brucia, fa male, va e viene ad ondate irregolari e non posso prevedere il pianto. Funzionano così i cuori spezzati, non è vero? Vivo le mie giornate nella totale normalità, a volte dimenticando che tu non sei più qui e poi, d’improvviso, la memoria mi investe violenta. Tu non ci sei più e il dolore torna a farsi sentire con il medesimo indice di intensità. Non un milligrammo di meno. Sto male. Sto malissimo e non l’avrei mai creduto possibile. Dirlo mi aiuta. Non dormo più, non mangio più. Devo arrivare dall’altra parte di questo dolore. Non lo tollero più. Tu non me lo puoi togliere, io non me lo posso evitare. Non c’è molto di cui parlare.

Sono nata il giorno del solstizio d’estate, porto dentro l’odore del grano e le ore dilatate del sole e della luce nel giorno più lungo dell’anno. Questo solstizio, questa aria di attesa del sole, del caldo, del mare è sempre con me. La sua natura intrinseca di cambiamento io me la porto dentro, per questo, so che la mia burrasca richiede porti immensi entro cui consumarsi. Spazi che tu hai dentro, orco, e che però, non vuoi dare.
Cosa mi tiene ancora qui, alle porte della tua palude? È forse, la mia incapacità di amare me stessa che mi rende naturale accettare che neppure questa volta, sono io il centro del mondo? È, davvero, questo quello che tu pensi io sia? Qualcuna per la quale non vale la pena lottare, cambiare? Solo questo? Dove sono le promesse di un amore che mi volesse spettinata? Dell’orco che non si stancava mai di leggere le mie espressioni? Dove diamine è finita l’idea dell’orco giusto che appoggiava il mio volo e mi faceva sentire sempre sicura? Se c’era un prezzo da pagare perché non l’hai esposto al cartellino? Perché mi hai fatta innamorare?

Tutte queste risposte delle quali sono alla ricerca, restano inevase.È nella natura stessa delle domande, non esistono risposte assolute, vero? Tu resti fermo sulle tue posizioni. Posizioni di certezze, di forza e di stasi. Io resto nei miei dubbi. Nel moto dubitativo che mi spinge in avanti. È forza anche questa, la forza di non sapere dove andare, eppure, andare.
Tu che hai il gene del viaggio, dovresti saperlo. In questo frangente sembra sia tu ad esercitare la forza maggiore. Passerà, o, magari, scoprirò di non essere forte come credevo, o, ancora, che c’è un orco a questo mondo, più forte di me.
Chi lo sa? Il bello, il mio vero viaggio è scoprirlo.

giovedì 14 giugno 2018

Di orchi e di sogni infranti.

Cose in cui credo:

-nell’idea di amare con semplicità. Completamente, senza remora alcuna e poi, saltare, sapendo che la probabilità di cadere e farsi male è, in proporzione, più alta di quelle di successo; comunque saltare.
-nel mare al cui cospetto tutto mi è possibile, anche portare la pace in Medio Oriente, per dire.
-nel vino rosso, perché porta con sé tutte le risposte di cui ho mai avuto bisogno. Proprio, tutte.
-nei dubbi, essi, infatti, chiarificano la via. Sempre.
-nel bacio perfetto, quello che quando lo assaggi ti fa girare la testa, non è vero? Chi di voi non l’ha provato? Quello che il mondo intorno tace, ci siete solo tu, l’oggetto del desiderio, le vostre labbra e tutte le parole che il vostro cuore sussurra in quei brevi istanti di eterno.
-nell’amor proprio, perché nemmeno il bacio perfetto dovrebbe impedirti di guardarti allo specchio
-nel silenzio. Ancora la lingua più universale e difficile da imparare.

Mi hanno insegnato, che se fai una lista delle cose che davvero contano, se la tieni sempre a portata di mano, cuore e mente, alla fine, troverai la risposta che cercavi. Il casino, è quando le risposte che trovi, non ti piacciono. Avete presente?
Tra sette giorni compirò trentasei anni. È un’età strana questa. Sembra di vivere una seconda adolescenza che uno poi potrebbe dire “e cosa vuoi di più dalla vita? Vivere la tua adolescenza con le consapevolezze di un’adulta” tranne poi scoprire, a quasi quarant’anni, di aver disimparato la capacità di giudizio acquisita lungo il corso di una vita. Forse l’hai tutta riversata sul non far morire per assideramento tua figlia? Forse tutto quello che sapevi, la convinzione di saper leggere gli avvenimenti con il raziocinio di un’adulta, forse tutto questo, l’hai dimenticato sei anni fa nella sala della croce rossa durante il corso di disostruzione pediatrica? Forse oggi sai fare la manovra di Heimlich, ma non sai capire se hai a che fare con uno stronzo? Forse. Non saprei. Come vi ho già detto ho disimparato la vita, ultimamente.

Come quando ti spezzi un braccio e dopo quaranta giorni di ingessatura, devi riprendere confidenza con la sua capacità articolare e hai paura anche solo ad alzare una tazzina di caffè. Tu sai che puoi farlo, solo che non ricordi di poterlo fare. Ecco, io so che sono in grado di riconoscere uno stronzo, ma, in qualche modo, decido di non seguire il mio codice morale, seguo quello che mi consigliano gli altri e lascio che lo stronzo, ferisca me. Lo so che sapete di cosa parlo. Ormai, è tutto un fiorire di donne quasi ai quaranta, con acne giovanile! Gli ormoni in tempesta e il cuore bendato. A volte penso che il genere femminile stia coscientemente regredendo alla fase adolescenziale per incontrarsi, finalmente, con quello maschile! Che manipolo di narcisisti ego riferiti siamo diventati.

Per esempio, è giusto concludere una relazione perché uno dei due vuole figli e l’altra, no? A prima vista è un atto di profondo amore. Della serie, la mia libertà inizia in me e finisce dove inizia la tua. Oppure, ti amo a tal punto da non volerti chiedere di fare un figlio. E, dall’altra campana, ti amo così tanto che riconosco il tuo bisogno umano di procreare, di lasciare un pezzo di te al mondo che ti lascio libero di andare. Tutto molto bello. Tutto molto maturo. Tutto molto preconfezionato. Tutto, molto, finto. Lui cerca una fattrice, non una donna. Perché, amica, se volesse un figlio da te, se volesse mettere un pezzo di sé dentro te, aborrirebbe la sola idea di avere un qualsiasi altro figlio che non avesse i tuoi occhi o il tuo naso. E lei? Lei è una che con ogni probabilità, non si dovrebbe riprodurre. Non è vera la storia per la quale ogni donna ha l’istinto materno. In generale, le donne non lo hanno di default a meno che, tu non sia educata in seno ad una comunità Amish e, anche in quel caso, te lo hanno inculcato non ce l’hai perché sei la Vergine Maria. Alcune, lo sviluppano appena scoprono di essere incinta (io non ci credo, ma molte giurano di sì), altre, al primo vagito, altre, nemmeno entro la laurea del figliolo e, tuttavia, fanno il loro mestiere di madri, e, tuttavia, amano i loro figli, perché l’amore che si nutre nei confronti di un figlio, è una specie di maledizione alla quale non ti puoi sottrarre. È un bene involontario. Ma come essere umano quella donna lì, è bruciata, perché non voleva fare un figlio, ma ha fatto un figlio. È diverso.
In generale, le donne si dividono in quelle che sanno che diventeranno madri, perché pensano che così giri il mondo e donne che non se lo sono mai chieste. Di solito le seconde sono quelle che le guardi e le ingravidi. Ecco, di solito la seconda tipologia di donna, è quella che dirà all’uomo in oggetto che non vuole figli. È un assunto vero? Forse. Il punto è che se l’uomo l’ama deve voler restare, a prescindere dalla riproduzione. Se non resta, semplicemente, non ti ama. Pietra sopra.
O, più verosimilmente, in donne che ammettono che la maternità le fa tremendamente soffrire e, donne che ti raccontano ma che bel castello marcondirondirondello.

Non è così difficile da comprendere, amica. Hai una laurea e non sai decifrare il comportamento di un altro essere umano?
Quanto ancora lascerai che lui si arroghi il diritto di non rispondere ai tuoi whatsapp, quando tutto ciò che fai è cercare di capire cosa stia accadendo? Ma, allo stesso tempo, quante altre volte vorrai porre una domanda per la quale hai già una risposta? Non c’è niente di più morto di un amore morto; se lui ha smesso di amarti per un solo istante, allora, nulla gli impedirà di farlo per il resto del tempo che potrete condividere. Tu lo sai, eppure, sembra sia una tua priorità ricoprirti di vergogna, in nome di cosa? Vuoi davvero stare qui a mendicare che lui ti ami?
Fallo andare per la sua strada, siediti sulla riva del fiume e aspetta di vedere il cadavere del tuo nemico passare, perché passerà, amica, ci puoi giurare. Forse ora non lo credi. Forse, ora non vedi la tua luce perché hai concesso ad un uomo di eclissarti. Ancora una volta, anche quando il tuo papà ti ha vista brillare.

A dispetto di quanto pensassi, hai visto?! Non lo fai perché sei la principessa smarrita di papà. Lo fai, perché non hai abbastanza stima di te stessa. È solo questo che ti rende meno amabile amica.

Non è il tuo cattivissimo papà. Sei tu. Sei tu a rendere accessibile il tuo cuore al dolore, al sopruso e all’abbandono. Sei tu che gli hai concesso di entrare e di uscire come fossi un cesso pubblico. SEI TU. Non è il tuo papà, non sono i fantasmi del tuo passato, non è nemmeno lui. SEI TU. Non hai saputo amarti nemmeno questa volta e non conta quante volte hai pregato Budda o chi per lui, di indicarti la via dell’amore, tu resti sempre la ragazza che non sapeva amare.
Quella che continua incessantemente a provarci ad essere amata. Una volta, almeno una volta e cade sempre nello stesso patetico errore. Una folle, come direbbe qualcuno, che persiste nell’errore pensando, in qualche modo perverso, di riuscire a cambiare il risultato. E invece, no, il risultato non cambia.
Gli orchi buoni non esistono, amica. Ora lo sai anche tu. Non c’è spazio per principi, draghi e orchi nella tua fiaba. Sei solo tu e un cazzo di mostro. Cosa farai, scapperai ancora? Cercherai riparo nell’abbraccio di un altro, più nuovo, eroe che prestissimo, troverà troppo complessa l’avventura dell’amarti e andrà altrove, in un castello con marmocchi e pasta al pomodoro? O, invece, questa volta, lo guarderai negli occhi il mostro e gli sussurrerai che lui esiste solo perché tu lo rendi possibile?
È questa l’unica domanda, amica.

“Hello, i’ve waited here for you. Everlong”

venerdì 25 maggio 2018

Cara madre single,

ma forse, semplicemente, cara amica madre,

lo so, casa tua non è un Carnevale di Rio. Dalle tue parti la vita è più una corsa sulle montagne russe, alti e abissi in ventiquattro ore. Una vita al pantoprazolo, altro che dove c’è Barilla, c’è casa.
Hai scelto di mettere il depuratore al rubinetto dell’acqua della cucina. IL DEPURATORE AL RUBINETTO. Questo spiega in tre parole la situazione attuale della tua esistenza: sei desolatamente sola e non importa quanto le persone che ami ti dicano il contrario, la verità è che sei così sola, da essere l’unica che poi dovrebbe portare la cassetta d’acqua a piedi, su per le scale.
Sei quella che pianifica di aspettare che tua figlia si addormenti per guardare un film o la tua serie preferita che in qualche modo misterioso, sei riuscita a scaricare, poi arriva sera, con lei il silenzio e tutto quello di cui hai voglia, è piangere in santa pace, senza paura di essere vista. Grossi, iper salati lacrimoni che bruciano. Anche stasera guardi il film domani, vero?
Hai finito da tempo immemore di guardare alle pubblicità con disappunto, a te non riguarda affatto quello che accade nella giungla della Pavesi dove il peggio che può succedere è la visita della suocera vestita da pelle di leopardo. Non sai cosa significhi aver un rapporto speciale con l’Ace pavimenti, perché il massimo del tempo che dedichi alla casa, è la lavasciuga della Folletto.
Cara amica, lo so anche oggi ti è toccata la sveglia, i pianti per la scuola, i capricci per il cartone animato del mattino, le suppliche perché si bevano quelle due dita di latte e non fa nulla che tu non mangi latticini e assumi il calcio dalla frutta secca, il tuo modello materno inconscio, ti impone che il latte sia la vera fonte di calcio e in fondo, chi sei tu per contraddire la voce interna di tua nonna che lavora di sgretolamento di maroni anche dalla tomba? I genitori si sa, e quindi i nonni peggio, lavorano anche da morti. Amen, che latte sia. Veronesi sa una sega, meglio nonna.
Amica, le conosco anche io le crociate per la mise del mattino, che “sotto il grembiule conta, mamma”!
Sei quella che nei giorni di festa terrorizza la figlia, raccontando storie di apertura scolastica parziale per i bimbi che fanno i monelli.
Sei quella che alle quattro del pomeriggio, ovvero, dieci minuti dopo l’uscita da scuola, si domanda: “è troppo presto per bere”?
Il momento più intenso della tua giornata è quando alle sette di sera metti in tavola la cena al tuo piccolo umano e tu, ti versi da bere. L’ora felice di mamma, la chiami. Tutto in perenne solitaria.
Sei la solita donna di sempre, eppure non ti trovi più. Ti avevano detto che sarebbe passata, che avresti imparato ad accettare che quella persona lì, quella che ti aveva accompagnato fino al test di gravidanza, sarebbe tornata. Ti avevano assicurato che il cervello sarebbe tornato ai funzionamenti di un tempo, alla vivacità, alla curiosità, alla giovialità del voler conoscere tutto del mondo e, invece, ti ritrovi stanca al solo accendere google earth. Certo, oggi a distanza di qualche anno dalla tua pipì su quello stick, le capacità mnemoniche sono rientrate negli standard di coloro che non hanno subito traumi alla corteccia cerebrale, anzi, se guardi bene, oggi il tuo cervello è una macchina complessa stupenda, piena di nuovi optional, prima sconosciuti: dal multitasking alla capacità di ritrovare una scarpetta di Barbie in un mare di micro oggetti mal riposti in una gigantesca cesta giocattoli, alla sorprendente capacità di ricordare ogni singolo nome di non una, ma quattro serie di LOL. Tutto questo però ha un prezzo. Che fine ha fatto la tua capacità di ricordare interi periodi di Anna Karenina? Tornerà, ti dicevano e invece, la tua capacità di leggere e ricordare deve essersi persa tra le righe dell’ultima lettura di storie della buona notte ed è per questo che a tua figlia tu non leggi fiabe, ma miti greci. La maternità è per te come un interminabile corso di studi al CEPU della tua città.

Tuo figlio è lo spartiacque della tua esistenza: quando eri te stessa e quando hai smesso di esserlo. Guardi alla metà di te stessa mancante con uno strano disincanto, che una pensa tu abbia compreso che quella grande assente non tornerà mai più e, invece, eccoti lì “aspettando, Godot”. La maternità ti sembra un concetto chiaro, eppure, non applicabile alle tue capacità di essere umano e più la tua prole cresce, più la tua incapacità si palesa e, allora, paradossalmente, in quegli attimi di sgomento, rientri nella tua vecchia pelle di umano non amabile. Ti riconosci, non è vero? La curva del sorriso contrito di chi sbatte in faccia alla vita la sua forza e poi, invece, crolla ad ogni caduta.
Hai voluto fare l’eroe, ancora una volta. Non è vero? Quella che, io sono madre, padre, amica e all’occorrenza Dio e oggi? Oggi sei nel caos e sei dannatamente stanca. Nemmeno a questo giro sei stata in grado di comprendere che tocca chiedere aiuto. Che il mondo non crolla se ammetti di non essere il mago di Oz.

Sei madre. Questa frase ti ha spaventata così tanto, che oggi, ti definisce nella tua totalità e mentre il mondo ti guarda e vede una specie di dea che ha creato un altro essere umano, un vero super eroe con il potere eccitante di dare la vita, di portare al mondo il nuovo, tu invece, ti guardi e pensi: tutto qui quello che sono? Dove sono andati a finire i tuoi sogni? E li rincorri senza sapere più cosa diamine cerchi. Allora trascorri il tempo a domandarti chi sei? Sei in una nuova spaventosa adolescenza con contorno di tempesta ormonale. Il ciclo si accorcia e la vita si accorcia solo che tu non senti il tic tac dell’orologio biologico, ma quello dei tuoi fallimenti. Quelli lavorativi, quelli sentimentali e quelli personali. La frustrazione ti spinge al patetico giochetto del condizionale “se non avessi scelto la strada impervia…” e tutti intorno a te, ti sembrano dannatamente felici nei loro matrimoni ammaccati e nelle loro case che profumano di cena. Non è così amica, sono solo comodi. Non tutti, è chiaro. Alcuni lo sono davvero, innamorati, ma non di quell’amore che tu credevi possibile. La scelta, infondo, è tutta lì.

Vedi, amica, io lo so perché sei qui, sono come te. Sei un’inguaribile romantica. L’amore per te è quello assoluto e non ha nulla a che fare con la procreazione, o meglio, è solo, al limite, la ciliegina sulla torta. Tu vuoi un uomo che voglia te, la donna che sei. Vuoi un amore fanciullesco direbbe qualcuno. E così sia. La verità è che se volevi l’amore borghese dell’amarsi a metà solo in caso di fecondazione, allora, restavi con tuo marito. Forse il tuo destino sarà di restare sola, o forse, un giorno sarai ricompensata per tutto il male che ti sei fatta e quell’amore che desideri arriverà, è puro gioco d’azzardo, all-in.

Eppure amica, non è questo il punto. Non è l’amore il punto. Hai fatto scelte complesse, perché sei un essere complesso ed è per questo che il tuo essere mamma, non segue sentieri regolari. Non puoi aspettarti di essere “diversa” e poi avere un ménage familiare “normale”. Non puoi aspettarti di essere quello che sei e poi pensare di avere un figlio che rientri nei canoni tradizionali di bimbo. Tuo figlio è come te. Tuo figlio è te. È l’estensione del tuo battito cardiaco, del tuo cervello e della tua stessa sensibilità. Tuo figlio, è una creatura meravigliosa, che segue strade impervie come te e il tuo unico compito, è accompagnarlo e sì, è un compito duro. A volte troppo, ma è anche il viaggio più straordinario che tu possa mai fare. Per ogni pianto versato in silenzio, nel buio della tua casa, quella casa che spesso sembra un a prigione, c’è una carezza, un bacio, un sorriso, una nuova scoperta di tuo figlio. E allora amica, va bene così. Perdona te stessa, per non essere quello che tu credi che il mondo e tuo figlio si aspettavano tu fossi e sorridi. Perdona te stessa, per tutti i drammi, i traumi e i problemi che credi di arrecare a tuo figlio e ricordati che la vita è fatta di tanti traguardi non uno solo e che quelli che oggi ti sembrano bambini più equilibrati, solo perché hanno mamma e papà sotto lo stesso tetto, probabilmente, domani saranno adulti che non saranno in grado di combattere per l’amore e si lasceranno andare al più facile e rispettabile compromesso del creare una vita insieme su basi troppe volte, inesistenti. Non lo so. Forse sarà così, o forse, tuo figlio condividerà le stesse nevrosi di tutti gli altri. Magari di più, in fondo, è tuo figlio. La verità che mi pare di aver colto in tutto questo casino della genitorialità, è che qualunque cosa tu scelga di fare, alla fine, sbagli e allora, magari, vale la pena di ridimensionare le tue ansie, amica. Forse, l’importante è l’essenziale e l’essenziale, dovrebbe essere, preoccuparsi di non crescere un serial killer. O sbaglio?

E per quello che riguarda te, amica, versati pure da bere non è stasera che cambierà la tua vita. In realtà non deve nemmeno cambiare. Devi darti tempo. Hai scelto di amare, allora ama, fallo con il cuore.

Il tuo cuore batte circa centoquattromila volte in un solo giorno. Sembravano di più, non pensi? Ogni singolo battito del tuo cuore è prezioso, non devi sprecarlo in inutili paragoni con il resto del mondo. Tu sei unica e unico è il battito del tuo cuore. Un ritmo inimitabile. Seguilo.
Ognuno danza col suo cuore, anche tu.

Con amore,
Michela

PS Buona fine dell'anno scolastico. Ora saranno cazzi, ma quando i giochi si fanno duri, le dure cominciano a giocare.

venerdì 18 maggio 2018

Amore, maionese e bulimia.

Certi amori sono come la maionese.
Non è che tu abbia spazio per alcun dubbio. Lo sai. Lo sai con matematica certezza che, la maionese, è cibo spazzatura, nuoce alla tua salute, eppure, è il tuo cibo preferito. Non c’è un cazzo da fare. Che poi non è che tu sia una che mangia solo junkie food. Tre anni fa, per esempio, eri decisa. Eri sposata, una lattante all’attivo; sentivi che era arrivato il momento per diventare vegana. Lo avevi sempre sognato. Così hai deciso di studiare. Hai comprato manuali su manuali di cucina vegana. Tu, che in vita tua avevi solo aperto scatolette, ora parlavi di erba spirulina e zenzero come non avessi mangiato altro in tutta la tua vita. Hai comprato un estrattore, a freddo, ovvio, lo sanno tutti che la centrifuga a caldo distrugge molecole e vitamine e ti sei lanciata nel tunnel degli estratti verdi per due mesi o giù di lì, poi un giorno hai aperto il frigorifero, ti sei fiondata su maionese e birra e sei tornata in te, bye bye vegan!
Insomma, lo sai che potresti, dovresti mangiare altro e, se ti concentri, per un po’, lo fai. Cibo green, cibo pulito, organico, bio a chilometro zero. Cibo proteico che nutra te, i tuoi muscoli, la tua autostima e il tuo amor proprio, eppure, arriva sempre il momento in cui apri il frigo, e non puoi, forse non vuoi, -chi sei tu per giudicare-, resistere.
Ognuno ha la sua debolezza, la mia (e quella di mia sorella maggiore, buon sangue non mente) è la maionese, forse tu sei più da gelato o da nutella. Magari c’è qualcuno tra voi che leggete, che è da patatine in busta (io non mi faccio mancare nemmeno quella) e chi, invece, potrebbe nutrirsi solo di pizza. Quello che conta è che, ognuno di noi, ha almeno un cibo spazzatura che rappresenti al meglio, anche il rapporto con quello che in noi si traduce come l’amore inarrivabile, quello impossibile. Qualunque sia la tua età, sai di cosa sto parlando. Ammettilo.
Hai presente? La sensazione di fame atavica. La voragine tra petto e bocca dello stomaco. Quel vuoto insaziabile, la bulimia che ti fa lanciare sul tuo cibo di conforto, al sicuro, dal mondo là fuori, brutto e cattivo. Certo, a volte ce la fai. Il frigo lo apri, guardi il barattolo e gli dici -“no, sono più forte io di te”! Ma quanta fatica fai?

Quelle come me, cresciute a pane, maionese e Mr Darcy sono intrinsecamente convinte che l’amore sia quello che ti prende la bulimia. Ti prende il vuoto. La pancia. Il guaio con l’amore bulimico è che dopo la scorpacciata arriva il senso di colpa. È così che a quasi trentasei anni scopri che tu la felicità, la colleghi alla malinconia, al senso di vuoto del post abbuffata. Sei felice per pochi istanti e poi sei nel pieno del tuo senso di colpa. Come se il solo fatto che TU possa essere felice a prescindere dal benessere di chi ti circonda, ti trasformasse in un essere abominevole. Sei felice e ti senti colpa. Il paradosso del benessere, giusto?

Che la bocca sia indolenzita alla fine di un bacio, o altrimenti che senso ha?
Buffo, vero? Come felicità e disperazione, in realtà tocchino le medesime corde in alcuni animi.

Non è bello essere come noi. Sentire lo stomaco chiuso a doppia mandata perché l’amore, o quello che credi tale, ti sta nutrendo da dentro e poi sentire la voragine quando tutto è finito. Qualcuno ci chiama sensation seekers, cercatori di sensazioni, svuotandoci un poco del nostro originario bisogno di sentire nel corpo che qualcosa, oltre noi, c’è.
Sarà che da linguista, gli anglismi mi stanno parecchio sul cazzo, ma l’idea di me che vado alla ricerca forsennata di sensazioni come fossero una dipendenza vera e propria, mi fa sentire parecchio superficiale.

Sarò una cacciatrice di emozioni, non lo so, quello che ho compreso su me e molti altri in relazione all’amore, è che non importa quanto la persona che ci sta di fronte sia straordinaria, quelli come noi, bruciano in fretta.
Non possiamo permetterci il lusso di bruciare le tappe. Non possiamo dire: “okay, facciamo che ci amiamo per sempre e andiamo a vivere insieme”. Per molte ragioni.

Primo siamo esseri che amano sulla distanza. Io ti amo, da lontano. Vi ricorda qualcuno?
Io ti amo quando ci incontriamo, rendiamo l’usuale straordinario e poi rientriamo nelle nostre vite. Io ti amo quando non mi poni nella condizione di aver paura che poi, alla fine, scapperò ancora. Io ti amo, se sei capace di non farmi bruciare le tappe. Di tenermi a freno e no, non ti chiedo di essere il mio baby sitter, ma se amore è reciprocità io, al limite, ti chiedo di aiutarmi a tenere il passo, perché tendo a correre e a sentire la stanchezza della corsa.
Un altro motivo è che ci prende la bulimia e, se la persona che abbiamo di fronte, non è più forte di noi, lo sentiamo. Noi vi annusiamo. Sentiamo l’amore e poi lo ricacciamo. Non è mancanza di rispetto nei vostri confronti è che siamo esseri imperfetti. Come voi, solo un po’ peggio.
E poi, per me e per tutte le madri single come me, c’è il motivo principale che sono i nostri figli ai quali, richiediamo una flessibilità emotiva quasi folle.
Ecco, ora che ci penso, i figli sono il nostro esempio perfetto di amore. Sapete perché quello è un amore che non brucia mai? Perché è un amore che abbiamo avuto la possibilità di conoscere con consapevolezza. Un giorno alla volta, per nove lunghi mesi. Ci hanno fatto soffrire per metterli al mondo, ce li siamo sudati, i nostri figli e poi, da quel giorno, ogni giorno, quando i loro piccoli occhietti assonnati si aprono, ci conquistano e ci danno la possibilità di innamorarci daccapo e, ciononostante, la natura non si imbroglia; quelle come me, sono madri che ogni mattino provano ad essere le fate madrine che pensano di dover essere e mentre la giornata trascorre lenta, il mostro ci prende di nuovo e tutto ciò che cerchiamo è la fuga dalla maternità e dalla frustrazione di non essere abbastanza. Non è forse amore questo? Alcuni risponderebbero di no, invece, lo è. È l’amore assoluto. Quando conosci la battaglia di una persona così, o la accetti o scappi via e, qualunque strada tu scelga, andrà bene. Io, per esempio, non penso che starei mai, con una come me. Una volta qualcuno mi ha detto che lui ha scelto di essere felice, io ho trascorso molti giorni a seguire ad interrogarmi sul perché io non fossi in grado di esserlo. Ho pensato subito che il mio malumore congenito e la mia onnipresente malinconia fossero solo altri due difetti da aggiungere alla mia lista nera. Quella lista che ognuno di noi ha di se stesso e che tiene ben nascosta.
Poi, da qualche parte ho letto una cosa che mi ha fatta piangere molto e mi ha ricordato, che le parole non vengono mai per caso. Come le persone, arrivano quando dovevano arrivare.

Era la sua malinconia che m’incantava, una malinconia che lui non cercava di sconfiggere, una malinconia duratura e persistente, arrivata per restare. Quella condizione insana che chiama a sé fantasmi e apre la strada a convinzioni dure come la pietra. Così diversa dalla mia condizione, che non si poteva nemmeno chiamare malinconia –forse insoddisfazione o debolezza. Saldaña Paris era veramente malinconico: un uomo d’altri tempi che viveva imprigionato in questo; un uomo d’epoca in cui la felicità non era obbligo, ma la fortuna di qualche stupido

Settimane fa mia sorella maggiore, che mi ama a prescindere da me come i miei altri fratelli scelerati nel volermi bene, ma sempre puntuali nel cercare di trascinarmi con i piedi per terra, mi ha detto che l’amore impossibile, a suo parere, è un’esperienza che esiste nella vita di ogni essere umano che tal si dica, ma che in qualche modo, ad un certo punto, bisogno decidere se si voglia o meno vivere di follia o di ragione e, soprattutto, se si voglia o meno vivere di mal di stomaco, labbra intorpidite e vuoti e pieni altalenanti. Vuoi crescere o rimanere immatura? Era un po’ questo che la mia mente pensava, mentre mia sorella parlava con la sua calda voce di casa. Vuoi dare una stabilità a tua figlia, o vuoi continuare a farla vivere nel tuo stesso caos emotivo? Forse, voleva dirmi questo. Non credo, perché mia sorella è una che non vive secondo i codici morali della folla. Poi ho capito. La stabilità di Virginia è in me, non in un rapporto con un altro uomo. Quella è roba che ho in mente io, di certo non lei.
Vuoi ancora continuare a mangiare la maionese, o invece, vuoi accettare che la maionese ti fa male ed è tempo di mangiare cibo più equilibrato? Sono tutte domande che vagano veloci nella mia mente. Un flipper infernale. Risposte non ne ho. Non ne ho e va bene così.
Forse, non è ancora arrivato il momento per me per ricevere risposte. Forse, è solo tempo di pormi domande, forse, è solo tempo di fermare il cuore e lavorare sul meraviglioso cubo di Rubik che è l’amore quando entra in contatto con me.
Arriverà il tempo della stabilità arriverà.

mercoledì 2 maggio 2018

Di yogi e di felicità.

Cose di cui ho paura:
dei vuoti
dei pieni
delle maree interne e di quelle esterne
della stabilità, ma anche dell’immobilità
degli amori a metà
della mia età
della famiglia
della necessità di amare
della capacità di restare e dell’impellenza di andare
dei ricordi che sono più numerosi dei sogni
dei progetti che si esauriscono lungo l’arco di un caffè
della mia identità, quella persa e quella che verrà
del silenzio che non riesce a stare zitto. Mai.
Della mia mente che cerca un modo per spengere tutto.
Della cassa di risonanza che ho al posto dello sterno, che ingabbia, amplifica e caratterizza ogni singola emozione che l’attraversa.
Del sole che non scalda abbastanza e del vento che mi scompiglia i pensieri.

Questa è una lista più o meno accurata delle mie più grandi paure. Di quei post it che nei film americani, la protagonista appenderebbe al frigorifero, stilerebbe un piano per superarlo e, paura dopo paura, avventura dopo avventura, amore dopo amore, alla fine, le supererebbe tutte. Ma questo non è un film e se lo fosse, mi farei rimborsare il biglietto perché, che senso ha guardare un film senza lieto fine? Io le mie paure, di solito, le evito accuratamente e, sono così brava a farlo che ho impiegato circa 36 anni a metterle in ordine nella testa e sul foglio. Le paure si affrontano, poi ci siamo noi che le nutriamo per bene fino a farci controllare. Quelli come noi, hanno ampi momenti di vita e lunghissimi declini. Momenti che ciclicamente tornano a farci male, vero? Ci sono giorni che vorrei scrivere, sento il flusso delle parole gorgogliare a fior di pelle, eppure, non una parola viene fuori. Sono quei giorni in cui mi prudono i pensieri. Sono quei giorni in cui metto tutto in discussione, me, le mie scelte, le mie pseudo certezze. Quei giorni in cui i dubbi mi attanagliano e non mi fanno vedere chiaro o, forse, vedo così chiaro da capire che non mi è dato sapere, ché la verità non esiste e più dubiti, più sai. Interrogarsi va bene, ma farlo dovrebbe significare accettare che le risposte, a volte arrivano, altre no e, quando questo capita, bisognerebbe mettervi un punto, inspirare forte e guardare altrove come quando diventi madre e devi per forza uscire dalla fase del perché e darti una mossa per trovare, invece, le risposte ai perché di tua figlia.

V- “oggi ero al Comune con papà e ho visto una sposa”
Io- “davvero? Che bello”!
V- “tu dove ti sei sposata? Al Comune”?
Io- “in chiesa”
V- “perché quella sposa non si è sposata in chiesa”?
Io- “forse non crede in Dio”?
V- “Tu credi in Dio, mamma”?
Io- “Sì, ci credo” (bugia numero uno o, forse, verità in cerca di conferme)
V- “perché quella sposa non crede in Dio”?
Io- “perché alcuni credono in Budda, altri in Allah, altri in Geova e, alcuni, in nessuno. È una scelta”
V- “non credere in nessuno può essere una buona scelta per la tua vita”?
Io- “Sì, può esserlo, se ti basta”
V- “A te basta credere in Dio”?
Io- “Sì, mi basta” (bugia numero due, non mi basta affatto e, infatti, ancora mi domando se io ci creda o meno)
V- “ perché ti basta”?
Io- “perché, amore, ci sono delle cose che non si possono spiegare e,questo, ci aiuta ad accettare tutte le risposte che ci vengono dal cuore”
V- “perché”?
Io- “Tu credi a Babbo Natale”?
V- “sì, ci credo”
Io- “perché credi a Babbo Natale”?
V- “non lo so, perché mi porta i regali credo”
Io- “ e ti basta questo per crederci”?
V- “Sì, e la Befana”
Io- “ecco, con Dio più o meno, funziona così, come con Babbo Natale”

Seguono attimi di silenzio in cui quasi mi pare di vedere gli ingranaggi del suo meraviglioso, nuovo cervello scevro da schemi e categorie mentali arrovellarsi veloci per mettere in ordine le nostre chiacchiere.

V- “mamma…”
Io-“Sì, Virginia…”(esausta)
V- “Allora, Babbo Natale è Dio”?
Io-“Sì, Virginia. Babbo Natale è Dio”

Ecco, Babbo Natale è Dio; a me piace pensare che risposte del genere, possano bastare non tanto alla nostra insaziabile curiosità, quanto al nostro desiderio di sentirci al sicuro. Mi piace pensare che le mie risposte possano essere la sua coperta di Linus.
Dicono che Virginia assomigli tutta al padre. A volte quando la guardo, mi sembra pericolosamente vicina a me. Lo sguardo serio, l’atteggiamento contrito di chi non ha bisogno di nessuno e, invece, diamine cosa darebbe per sentirsi amata. L’eterna incompresa. Se da un lato mi risulta facile capire i moti del suo cuore tenebroso, dall’altro vorrei che seguisse strade molto lontane dalla mia. Anche questo è un atteggiamento immaturo ed egoista, lo so. Siamo quel che siamo e il tentativo di cambiare la sua natura perché so che sarà difficile da gestire, la dice lunga su che tipo di madre io sia.
Sono fatta di pieni e di vuoti. Di piene e di arsure, se volete usare termini meno destabilizzanti. Un’eterna altalena diabolica che non mi concede la stasi. Il problema è quando entro in contatto con i pieni, perché i vuoti mi diventano insopportabili. Per questo mi tengo distante. Per questo evito. Per questo l’amore nella mia vita è una battaglia. Per questo io non posso fermarmi. Per questo non vi ascolto e, invece, vi sento. Tutto nella mia esistenza è teso ad evitare i vuoti che mi annichiliscono. Le piene sono difficili da gestire. Tutto è accelerato. Tutto è idealizzato. Tutto è portato all’estremo, così tanto, che non riesci a vederne il confine. Tanto che non riesci a capire se quello che provi è reale. E quando arrivano i vuoti, le arsure, tutto si fa pesante e il mondo ti schiaccia. La chiamano vita, giusto? Eppure mi risulta impossibile. Mi sento una maratoneta e i metri si fanno chilometri impossibili da coprire. Le gambe pesanti come due tronchi, il corpo che non risponde ai comandi, la mente che non sa più gestire la più semplice delle conversazioni e la gente, la gente mi affatica. Parlare loro. Intrattenerli, quando l’unica cosa che vorrei è spegnere la luce sul mondo e andare a dormire un sonno che mi rinfranchi dall’essere viva e il suo dannato peso. La chiamano vita e, allora, cerco un modo per viverla.
Conosco un uomo meraviglioso che ritiene di essere in possesso della ricetta per la felicità. Te la racconta e quasi ti convince sia semplice essere felici. Basta sorridere.
Lui sceglie di essere felice, che uno pensa:-e che ci vuole? Ora scelgo anche io. E, invece, non è così. La felicità, è un’arte. Complessa, peraltro. Non puoi scegliere di accendere e spegnere la felicità, perché quella, al limite, la chiami gioia. Devi scegliere di essere felice anche quando non hai un motivo che sia uno e tutto intorno a te crolla. Allora mi sono detta, bene faccio una lista e vedo se ho, almeno, le carte in regola per essere felice e, se scopro di non averle, mi sposto. Non sono un albero, infondo.
1) Mi piace quello che faccio per vivere? Anche se non è il lavoro dei miei sogni, almeno, mi trasmette l’energia e la voglia di alzarmi al mattino?
2) Mi piace dove mi trovo?
3) Sono felice di trascorrere del tempo con gli amici che ho?
4) Mi da piacere compiere le operazioni più basilari di una giornata, come ad esempio, cucinare un buon pasto caldo per me o per mia figlia?

Le mie, non sono state risposte positive e allora, mi sono detta, magari non sono tagliata per questo tipo di felicità, ma se non questa, allora quale? Quanti tipi di felicità esistono, poi?

A me la felicità arriva in fasi di piena creativa. Quando scrivo, ma non solo. Quando leggo e mi vien voglia di scrivere e superare le parole del giorno prima. Quando penso a cosa scrivere, quando qualcuno mi dice:-sai, ho letto quello che hai scritto. Io sono felice. Io sono. Io legittimo la mia ragione di esistere attraverso la felicità che mi procura lo scrivere.
Scrivo, quindi, sono… felice.
Ma la mia piena dura sempre poco, perché richiede fatica. La felicità, richiede costanza e fatica. È un lavoro a tempo pieno. Come quando inizi a praticare Yoga e sei l’ultimo membro del corso, tutti già nella posizione dello scorpione e tu hai solo voglia di urlare perché quel silenzio, quella fatica ti inchioda al tappetino di gomma dove ti viene richiesto di provare e di ascoltare, te, il tuo respiro e tutto il mondo intorno. Ecco, il cammino di un vero yogi richiede pratica ed esercizio fino alla tomba. Analogamente, la felicità vera, quella imperturbabile perché interna al tuo io, non fa sconti e richiede la tua presenza costante. Da qualche tempo ho deciso che io voglio essere yogi della felicità. Voglio dire, è altamente improbabile che nel futuro prossimo io riesca nella posizione dello scorpione, ma alla fine state certi che ci riuscirò, perché vedete, la questione è universale. In definitiva, non credo di essere originale neppure nel non riuscire ad essere felice, perché sono sbagliata io, non la felicità, vi ricorda forse qualcuno? In molti, sono sicura, condividono questo sentimento da border sempre all’erta. Sono piena, come molti altri di voi, di zone d’ombra. Ormai mi è chiaro. La natura non la cambi, ma impari a conoscerla e, si spera, ad arginarla. Ho una scala di valori molto disordinata che, in definitiva, cambia insieme al ciclo lunare. Con la maturità, ho imparato che le mie lune devo assecondarle.Come le stagioni, qui sulla Terra. Io sono il pianeta di me stessa. Non sono un satellite, non più. Non ho più voglia, né tempo, per inseguire. Dunque, l’unica strada per me percorribile, è andare dritto al mio nucleo e invertire la mia stessa rotazione. Il segreto, mi sono detta più volte, è tutto lì. Arrivare al nucleo e invertire la rotazione. Io ci credo e dovreste anche voi. Dovremmo tutti capire che siamo noi e solo noi, il centro del nostro tutto.

E allora sì che sarò felice, in qualche modo, un giorno.
Con i miei disordini, i miei tumulti e le mie parole sparse al vento.

domenica 8 aprile 2018

Di Alessandro Magno e del crollo di un impero nel mio cuore.

Quando hai amato un uomo che per te era il sole, la luna, il cosmo, il tempo, la rabbia e l’orgoglio, è un vero casino comprendere poi, che l’amore non deve farti male dentro, altrimenti, semplicemente, non è amore, è altro da lui.

Quando l'ho incontrato, non ero altro che un guscio di cartapesta vuoto, l’ombra di quella che ricordavo. La mia fretta di andare, comunque andare, ha sempre reso difficile guardarmi intorno. L’unica occasione in cui mi sono fermata, è arrivata Virginia. In realtà, non è esatto dire che mi sia fermata. Ero in trepidante attesa, ma già fluivo. Non sono in grado di restare. Ecco quello che so di me. Non so restare con la testa, non so restare con il corpo. Sono una che lascia le cose a metà, i discorsi galleggiare nell’aria e le relazioni irrisolte. Quando l’ho vista per la prima volta, mia figlia, ho compreso che si può sentire di essere venuti al mondo per una ragione. Virginia ha gli occhi di due colori diversi, uno color nocciola chiaro come i miei, uno color nutella come il suo papà. Mi sono sempre detta che, fin dagli albori, sapeva di non voler far dispiacere nessuno dei due perché entrambi siamo venuti al mondo per essere i suoi genitori. Avessi saputo amare il suo papà, come ci meritavamo, ora forse sarei qui a scrivere di altro. Mi piace sognare che sarei stata una donna capace di comprendere la ragione d’essere di giallozafferano.it; una che le amiche di Virginia a casa sarebbero investite già sull’uscio dal profumo di plum-cake alla banana, che poi Virginia non mangia le banane, ma nel mio sogno, sarei in grado di farle mangiare tutta la frutta del mondo. Roba che l’uomo del Monte ci passerebbe il testimone dell’ananas. Per dire.
Tutti sappiamo che, non è andata così. Io e il suo papà ci siamo lasciati, perché io non so restare. Io devo andare. Al padre di mia figlia, il mio ex marito, voglio un bene incredibile, desidero che sia spudoratamente felice e, letteralmente, adoro la sua attuale compagna. Lo so, molte di voi a questo punto sgraneranno gli occhi. Per il nostro tradizionale sistema di valori nazional-cattolico-popolare, in qualità di ex moglie dovrei stare sulla difensiva e temere il suo rapporto con mia figlia. La verità è che questa ragazza invece a me piace, soprattutto perché è così matta da sobbarcarsi le ansie di un uomo quasi divorziato e una bimba di sei anni con il gene e il carattere impossibile di sua madre. Non sono gelosa, al contrario sono felice di sapere che mia figlia è amata e sono lieta, che possa avere un altro modello di donna, oltre al mio, da seguire. In ogni caso, questo non è un post sul mio atipico ménage familiare, ma annoto che vorrò parlarne.

Cosa vi dicevo? Ah sì, l’ho incontrato ed ero fragile. Ero nel mezzo di un matrimonio che non comprendevo (ma non rimpiango), di una maternità che mi inabissava e da qualche parte sentivo lontana una eco che mi invitava a prendere nuovamente e forse per la prima volta, possesso di me. L’ho visto, il terreno sotto i miei piedi si è aperto in una gigantesca voragine. I colori si sono fatti più vividi, gli odori intensi. Quando l’ho guardato la prima volta negli occhi, sapevo che nulla sarebbe stato più lo stesso. Era diverso da ogni altro uomo prima di lui. Conoscerlo è significato conoscere un’altra vita, un altro mondo, uno nel quale ero finalmente dove volevo essere, dove avevo scelto io di essere. Eppure, inspiegabilmente, tutti quelli che ci circondavano si sono interrogati sulla natura del nostro rapporto e sulla sua reale ragione di essere, tanto da aver in qualche modo inquinato il suo cuore. Come era possibile che due individui nati in due mondi così alieni, potessero veramente amarsi? Come era possibile che due persone di nascita così lontana potessero amarsi tanto da svuotare l’intero universo del suo significato quando le loro mani non si incrociavano? Era un amore che non lasciava spazio ad altro. Questo ci rendeva invincibili da un lato, attaccabili dall’altro. Amare lui era un’esperienza totalitaria e, per questo, mi confondeva. L’ho amato come si ama Dio. In uno stato di contemplazione e adorazione. In una perpetua attesa di miracoli e, di miracoli, ne ha fatti tanti, ma ha, in qualche modo, trovato il modo di spezzarmi il cuore ogni singolo giorno della nostra storia d’amore. Mi ha voluta con la stessa forza con la quale lo volevo io. Entrambi in adorazione, immobili in un limbo che sognavamo essere il varco sul paradiso e che, nella pratica, si traduceva in un inferno in terra, un purgatorio quando ci andava bene. Che ti promette il paradiso e nel frattempo ti punisce per i tuoi peccati. Era un amore nato sotto un cattivissimo auspicio. Sulle ceneri di un altro. Cosa poteva venirne fuori di buono? Eppure, abbiamo strenuamente provato. Eppure, si è rotto ogni angolo del mio cuore infinite volte e, altrettante, lui l’ha rimesso insieme. Ancora legalmente sposata, con una bambina da gestire. Lui spiantato, arrivato da questa parte del Mediterraneo su un gommone. Un bimbo sperduto dell’isola che non c’è. Una missione impossibile dal primo sguardo e, infatti, la prima volta che mi guardò, fui incapace di proferire verbo, tutto ciò che riuscivo a pensare era che mi stavo ficcando in un gigantesco caos. Un amore come ne incontri uno nella vita, ma in fondo non sono tutti così gli amori? Joshua Mark mi faceva male in tutto il corpo, come avrebbe detto Borges con parole molto più piene delle mie. Ma Joshua Mark era anche pieno di zone d’ombra che, inevitabilmente, si sono riflesse su di me e la mia esistenza. La più grande, quella che ha disintegrato tutto, la mia totale incapacità di fidarmi di lui, del suo passato intendo. La sensazione annichilente di dover, ogni nuovo giorno, fare la sua conoscenza daccapo. Il racconto della sua vita mi arrivava a briciole che con troppa fatica mettevo in un ordine che fosse cronologicamente accettabile nella mia mente di donna occidentale. E poi, il giudizio della mia famiglia, il giudizio del mondo che ci vedeva solo da fuori. La paura di essere un bluff fuori da quel microcosmo che era il campo di accoglienza in cui gravitavamo. La reale difficoltà di trovare un posto in cui incontrarci. E, infine, la paura di un sentimento così forte che poteva portarmi verso una sola direzione: la catastrofe e l’abbandono.

Lui era il mio Alessandro e io il suo Efestione. Mi rendo conto che il paragone appare azzardato, ma io gli ero ciecamente fedele, come appunto, Efestione al suo Magno. La sua migliore amica e la sua amante. L’ho visto arrivare da lontano, conquistare il mondo e poi perderlo. Lo ha perso quando ha permesso al suo cuore di diventare freddo. Quando ha smesso di essere titanico e si è arreso al letame che ci circondava. Lo ha perso il giorno in cui mi ha messa nella posizione di guardarlo e di non vedere più il leone d’Africa che amavo, ma solo un uomo d’Africa come lo vedevano il resto degli occidentali. In una parola, distante. Distante da me, dal mio mondo, dal mio sistema di valori e, quindi, dalla mia vita. Quando ho capito che ero l’unica che lavorava incessantemente a quell’amore. In quel preciso momento mi ha persa. Ho perso il conto di quante volte gli abbia detto che l’amore, per quelle come me, non basta. Con lui ho condiviso il momento più importante della mia vita, la mia rinascita. Ha segnato il momento in cui ho capito che fino a quel momento avevo vissuto per fare felici gli altri. E vorrei, Dio quanto vorrei, dirvi che adesso non è più così, che ora ho trovato la giusta misura tra il compiacere gli altri e soddisfare i miei desideri, ma mentirei. Solo che ora, non mi aspetto più di essere capace di frapporre il mio volere a quello degli altri. Ho preso coscienza che io così sono e che forse, la mia felicità risiede proprio nel fare felici gli altri. Non so se mi spiego. In quante siamo così? Vi vedo, leggere questo incredibilmente lungo monologo amoroso e dire: “Oh, mio Dio, ma parla di me”? Ebbene amiche, diciamolo pure che stiamo sbagliando tutto. Che tanto si fa bene o si fa male, ci criticano lo stesso e allora, che senso ha non fare ciò che ci va? Sì, ecco io lo dico, ma non lo so fare perché ho questa forma mentale assurda e masochista, che mi obbliga a vedere sempre tutti, ma proprio tutti i risvolti di una questione, passando anche sul mio stesso cuore. Ragiono nell’ottica del dubbio e se posso dire la mia, per me è giusto farlo. Mi fanno paura quelli che sanno tutto, quelli che non si interrogano, quelli che non si ripiegano su loro stessi e vivono la vita a passo spedito senza un solo perché scoperto. Ecco, quattro motivi per cambiare di nuovo la mia vita. Non tutte le relazioni finiscono perché l’amore finisce. Anzi, se ho capito qualcosa nei miei primi sei anni da trentenne, è che da adulta le relazioni finiscono per una miriade di motivazione e, raramente, l’amore si annovera tra queste.

Attraverso l’incontro impossibile che ho tanto voluto con Joshua, ho capito una cosa di me e la voglio condividere con voi. Lo faccio per esorcizzare me stessa, ma anche perché sono donna e so, che in molte condividete la mia natura contraddittoria di basto io a me stessa e datemi un Mulino e vi sforno Tegolini tutto il giorno.

Quando io e mio marito ci siamo separati, per lungo tempo ho continuato a lavargli la biancheria, l’idea di farlo non mi mortificava affatto. Non ero responsabile per le sue mutande, in verità non lo ero mai stata sebbene lui si ostinasse a lasciarle in giro, ma lo facevo, non perché fossi una donna incredibilmente buona, ma perché farlo, non levava nulla alla mia condizione sicura di isolamento. Ero sola. Mi lamentavo di lui, come marito e come padre, ma la verità è che io non gli ho mai aperto le porte. Ero intoccabile. La vera responsabile del fallimento del nostro progetto famiglia, oggi lo so, ero io, ma il cuore non ammette la ragione e la tragedia dell’essere umano è tutta lì.

La vera responsabilità, il vero rischio, è prendere il cuore di un uomo e tenerlo tra le tue mani e poi, prendere il tuo e metterlo nelle sue.
Fidarsi e affidarsi. È questo il brivido che fa scappare quelle come noi, vero?
Impegnarsi e responsabilizzarsi affinché l’incantesimo non si spezzi.
Anche questa volta, non l’ho fatto.
Ho amato come non credevo avrei mai potuto fare, senza guardare in faccia niente. Dimenticando il mondo intero eppure io non mi sono mai affidata a Joshua e non mi sono mai fidata di lui. Sono stata così brava e perversa da sabotare anche l’amore che una dice ti ho aspettata tutta la vita.

Un giorno l’ho guardato ed ero forte abbastanza per lasciarlo un passo indietro e poi due e poi tre.
Ho avuto paura. Ancora. Ho pensato che nulla è eterno e che io, di certo, non sarei rimasta ad aspettare la fine. Ancora. E piano, piano ho distrutto il leone e ho creato l’uomo. Quando poi l’Impero è crollato, io ero già altrove.

Ma amore non è questo.
Amore non può e non deve essere questo.

Amore è che il tuo orco ti sorprende, ti chiede di seguirlo ad occhi chiusi.
Amore è non tanto scoprire di riuscire a chiuderli, quanto di riuscire a non aprirli fino a quando non raggiungete la destinazione.
Amore è quello.
Il resto è semplicemente altro.