mercoledì 10 gennaio 2018

Fenomenologia del Ser e dell'Estar nella lingua spagnola e, come applicarla, al concetto di Amore.

L’amore non basta. Non so più in quante lingue, ci sia ancora bisogno di spiegare questo semplice assioma.
L’AMORE NON BASTA, o se preferite, L’AMORE FINISCE, o più cinicamente, L’AMORE NON ESISTE DOPO I 20 ANNI. Smettiamola di stare a pettinare le bambole.
L’amore, come ce lo raccontiamo, non esiste. Quello, al limite, si chiama innamoramento e, i cervelloni del MIT hanno anche già dimostrato, che dura al massimo un paio di anni.

Amici, siamo italiani, la nostra lingua è tra le più variegate e perfette al mondo. Usiamo i termini giusti.
Un uomo meraviglioso, una volta mi ha detto: la differenza che corre tra amare ed innamorarsi, è, esattamente, quella che corre nella lingua spagnola tra il verbo Ser e il verbo Estar. Entrambi, possono essere tradotti con il nostro essere, ma nella realtà, in spagnolo, l’uso del verbo essere segue due rigide vie, quelle, appunto, di ser y estar. Per un italiano, questo è il punto più problematico della grammatica spagnola. Estar, è transitorio. Oggi è così, domani non si sa. Ser, invece, è imprescindibile dalla tua condizione di essere. È intrinseco al tuo nucleo. Definitivo.
In questa metafora, innamorarsi è temporaneo, è figlio dell’estar. Oggi, ora, qui. Domani? Amare, presuppone, agli occhi di un italiano, la stessa perentorietà del verbo ser per uno spagnolo. Così è e così sarà, per sempre. Curioso che per gli spagnoli però, si dica solo- estar enamorado e mai e poi mai, soy enamorado, perché, quando anche duri molto a lungo, alla fine questa condizione perirà. Ed è ancora più paradossale, che una delle caratteristiche più definitive di noi umani, la morte, sia, in spagnolo, comunque, sorretto dal verbo estar. Si dice, -està muerto e non, -es muerto. Forse, avrei dovuto rispondergli così.

In ogni caso, non so se sia davvero come diceva lui. Me lo chiedo ogni giorno. Ovvio, sarebbe bello pensare all’amore come un porto sicuro dal quale non esci più, ma mi sembra, mio malgrado, un’idea bizzarra. Intrinseco. Che appartiene alla cosa in sé. Che entra nella sua essenza, che procede dalla sua intima natura. Ah certo, certo, come se a 35 anni fosse davvero possibile trovare qualcuno che procede dal suo nucleo al tuo nucleo in un processo di quasi metempsicosi senza snaturarsi! Come se a 35 anni, uno davvero può andarsene a giro per il mondo, sperando di incontrare uno/a che ti comprenda al di là di sé stesso. No, dico, ma siete seri?
Almeno nella temporaneità dell’estar, che a un italiano ricorda più lo stare che l’essere, definiamo una condizione che, nel momento stesso in cui la enunciamo, è vera al 100%. Sono innamorata di te e, in questo momento in cui te lo dico è: liberatorio, vero, profondo, devastante, doloroso, appassionato e forte. Per paradosso, mi è quasi intrinseco. E boom, bada come ti risolvo l’amore!
L’importante, sarebbe conservare l’onestà intellettuale di non promettere.

Le promesse sono arme letali. Uccidono il sentimento, violentano il desiderio perché, sottintendono un senso di responsabilità del quale, le nostre vite di adulti, sono già fin troppo impregnate. Per questo, l’amore dopo i 20 è una leggenda. A 35 anni, non è come quando a 20 anni sei responsabile solo per te stessa e, a dirla tutta, se si osserva, per esempio, la mia vita a 20 anni, neanche tanto. A 20 anni per sempre è davvero per sempre. A 20 anni per sempre è l’unica condizione che ti sembra possa avere senso nel tuo sentimento. Perché ami davvero. Sei nell’essere, nel ser. È un amore intrinseco, totalizzante. È definitivo, tranne poi, inevitabilmente, finire, perché siamo umani. Ma quel per sempre è, per sempre, dentro te. Non è forse vero che il primo amore non si dimentica? A 25, hai preso qualche batosta, ma ci credi ancora, perché Jane Austen ha creato quel cazzo di Mr Darcy e tu non puoi rinunciarvi. A 30, inizi a pensare che, forse, per sempre no, ma almeno un paio di anni. A 35, sei mesi ti sembrano la promessa di fedeltà di un uomo, che davanti a Dio, ti giura di amarti fino alla morte; lo guardi mentre ti offre il caffè e pensi: che si fa? Si fa? E il tuo per sempre, si ferma in quel bar, a baciare quella tazzina di caffè fumante, perché all’uscita non sarete già più gli stessi. Sì, è così. Non provate a negarlo. L’amore a 35 anni è tutto un: “Ascolta io ho da fare, che fai mi cammini accanto sì o no? Perché io non ho tempo e voglia di fermarmi a guardare se ci sei o sei caduto”? Ci camminiamo accanto. Non insieme. Il problema del camminare accanto a qualcuno è che, il percorso può essere meraviglioso, a patto che si mantenga lo stesso passo, lo stesso ritmo. Spesso però, accade che uno dei due inizi, a camminare a passo più svelto o, che l’altro inizi a rallentare, quello che conta, è che il ritmo dei passi non è più dettato in due tempi armonici, ma diventano due assoli e, allora, camminare l’uno accanto all’altra, non ha più senso.
Il problema delle relazioni, di quelle in cui ho sempre vissuto io, è questo. A voler proprio essere onesti, non è che possa biasimare chi ci ha provato a restare nella mia vita.
Il problema delle coppie nelle quali esisto io, sono, appunto, io. E non è che voglia fare la maledetta a tutti i costi. Non è che io cerchi una scusa da- ”ti lascio, perché ti amo troppo” no, è, piuttosto, una sopraggiunta consapevolezza di chi sono. Uno straordinario, tanto atteso, dono del 2018.

Vedete, sono una persona più comune del normale. Molti di voi si ritroveranno in quel che sto per dire, il problema, quello che mi rende patologica, è come reagisco alle mie stesse azioni.

In campo sentimentale, ho una pessima abitudine, lego a me i cuccioli randagi; di base, perché sono una randagia anche io e per la proprietà commutativa non riesco a vedere altri risultati se non randagio+randagia= piccolo randagio non più randagio.

Li prendo dal ciglio delle loro vite, li faccio entrare nella mia, poi prendo il mio cuore per intero e lo metto al centro perfetto delle loro mani. Lo faccio con scienza. Lo faccio per renderli consapevoli che anche un randagio, può prendersi cura di un cuore e, in quel momento, ci credo. I miei bisogni si allineano ai loro. I miei desideri si nutrono e si amplificano attraverso i loro. Ogni volta, ogni singola volta, che ho lasciato entrare un uomo perché mi sembrava abbastanza irruente da volermi con l’energia giusta, alla fine, è stato così. Non sapevo quale “cammino di fede” avremmo intrapreso insieme e viaggiavo nella nostra relazione nella totale inconsapevolezza di me e di loro. Il conto, inutile a dirsi, mi è sempre stato presentato alla fine. Salato. Il casino, è che quando vivi per dare agli altri quel che vogliono o, quel che tu credi sia giusto loro vogliano, arriva sempre il momento in cui, quella cosa gliel’hai data, o se la sono presa e tu, non puoi fare altro che domandarti – e ora? Ed è come un ceffone in pieno volto.
Come un interruttore delle tue emozioni, che quando incontri il randagio lo spegni perché –ho già l’empatia che me ne faccio anche delle mie emozioni? Poi quando lo riaccendi (e lo riaccendi sempre, fidatevi) tutto torna in memoria come un boomerang; ti guardi da fuori e ti domandi- ma dove diamine ero?

Metti i ricordi emotivi in fila. Uno dietro l’altro. Riprendi coscienza di te e scopri che sei emotivamente vuoto. Scopri che non hai più niente da dire. Ma, a quel randagio, hai promesso castelli e bimbi belli e ora, sei in una situazione che gli antichi romani avrebbero descritto come del cazzum.
Ora è dura, non è vero, dire -amici come prima?

Per questo sono sempre rimasta nello estar enamorada. Forse, avrei dovuto rispondergli così.

Il problema con quelli come me, è che noi diamo, ma non prendiamo, perché ci sentiamo dei cazzo di super eroi. Siamo mossi da due motori e solo due: orgoglio e dignità. Questo, ci impone di pensare che, chi ci sta di fronte, sappia chi siamo e cosa vogliamo. Ve lo ricordate quello che vi ho detto all’inizio di questo lungo, estenuante post? Dove lo trovi a 35 anni uno capace di comprendere tu chi sia al di là di sé stesso? Ecco, il problema di quelli come me, è che noi, invece, vogliamo quel tizio lì. E siamo così occupati a risplendere, a fare le meraviglie nelle vite altrui, che non ci occupiamo di fare conoscere noi stessi a chi ci sta di fronte. Li ascoltiamo, li nutriamo, realizziamo le loro grandezze e li facciamo rimbalzare sulla scocca più esterna di noi.
L’orgoglio dell’essere sempre magnifici ce lo impone. Se non chiedi, anzi, se non fai le domande giuste io non ti dico chi sono perché, allora, non ti interessa. Ma ci interessa, è chiaro come il sole. Ci interessa che vogliate sapere. E forse a voi interessa, ma non come noi vogliamo che vi interessi, con la fame di sapere ogni singolo elemento di noi. Con la possibilità di sentirci vivisezionati. Messi sotto il microscopio, perché sei il più magnifico rompicapo che mi sia mai capitato. Con la possibilità di sentirci inseguiti, ma non braccati. Con la possibilità di tacere e di avere la certezza di essere compresi. Con la possibilità, di smetterla di dover dire, - estoy enamorada per poter dire, una volta, almeno una volta, - te amo.

E, sì, non ho detto te quiero, di proposito. Forse, avrei dovuto rispondergli così.

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