mercoledì 21 marzo 2018

L'amicizia dopo i 30. Pensavo fosse vero e invece...

Questa storia comincia così:

“Alcune persone si rifugiano in chiesa; altre nella poesia; io nei miei amici”

Questa frase è stata attribuita a Virginia Woolf, dico attribuita perché, chiunque conosca questa straordinaria autrice, saprà di lei due cose:
1) Si rifugiava nella scrittura prima che negli amici, ma è anche vero che, si veda il punto 2
2) Era un po’ matta. Tipo che a volte, sentiva gli uccelli parlare in greco antico sui rami degli alberi della sua casa di campagna. Suonata. Quel tipo di matta, insomma.
Quindi, quando si tratta della mia adorata, è vero tutto e il suo contrario. È vero, infatti, che non era la misantropa che i libri di letteratura inglese del liceo vogliono raccontarci. Al contrario, era una donna piena di vita come emerge dai suoi diari. Aveva la risata fragorosa e contagiosa con la battuta sempre pronta. Ma Virginia Woolf, amava troppo l’umanità, e quest’ultima, in cambio, non amava abbastanza lei. Questa fu la sua più grande fragilità. Questo la uccise. Non la sua malattia mentale. La normalità d’altronde, si sa, è sopravvalutata. Ama come amava lei e scoprirai quanto è difficile stare al mondo e quanto è semplice frangere il tuo cuore milioni di volte nell’arco di una sola vita.
Chi conosce me, invece, vi dirà sul mio conto almeno due cose che sono universalmente riconosciute:
1) Io venero Virginia Woolf a livelli oserei dire patologici, tanto da dedicarle la vita di mia figlia che di lei reca il nome e, spero, la stessa scintilla vitale e creativa.
2) Non sento gli uccellini cantare in greco antico, al massimo aspirano un’acca, ma sono matta quanto lei e sento l’umanità con la sua medesima intensità.
Come Virginia, ho sempre ritrovato me stessa nella scrittura, la sola che non mi abbia mai abbandonata e cerco rifugio nelle amiche, o sedicenti tali. Be’ queste, a differenza della penna, mi hanno abbandonata più volte di quanto mi faccia piacere ammettere. Allora, mi sono seduta a pensare: vuoi vedere che me lo merito? E, in effetti, questo post non è su Virginia Woolf, sebbene, sarebbe di certo più costruttivo e interessante parlare di lei. No, questo post è sulle amiche dopo i trenta. È per quelle come me che ci sperano sempre ed è per dire loro: non è solo l’amore ad ingannare, a volte anche l’amicizia, credevi fosse amica e invece era una stronza! Quindi bimba, sei fai parte del club “amore, pace ed empatia” come me, fai pace col fatto che se non hai modo di proteggere il cuore con impalcature a prova di tentativo di suicidio dall’ultimo piano, ti toccherà soffrire per un’amica che ti spezzerà il cuore in mille pezzi e tu desidererai vendetta dapprima, dirgliene quattro poi, dimostrarle che chi perde il tesoro è lei, ma poi, alla fine, raggiungerai la consapevolezza che, la vita è fatta così, si dona sempre più di quanto si riceva. Ci sono amicizie che quando finiscono non lasciano traccia emotiva in te e tu stessa realizzi di aver investito poco in quel rapporto, altre volte fa malissimo e sapere perché quel rapporto sia finito è fondamentale per voltare pagina. Come quando finisce un amore, devi vivere il lutto.

Al liceo avevo stretto amicizia con una ragazza che era in poche parole, il prolungamento di me stessa. Il suo nome era Serena, ma il suo, non era un caso di nomen omen. La vita, l’aveva fatta ribelle e a me tanto bastava per amarla. Abbiamo condiviso speranze, sogni e poesie. Poesie come se piovessero. Ci siamo nutrite l’una l’altra di parole e musica in interminabili lettere di amore (le ho conservate tutte) e musica con musicassette studiate e registrate sull’anatomia delle nostre emozioni. Il mondo nasceva e moriva nelle nostre giornate piene di filosofia spicciola che profumava di gioventù e rock and roll. Poi è la vita è accaduta, il mio primo vero amore, la morte di sua madre che ha inchiodato il suo animo leggero al terreno e la mia nota paura di impegni relazionali che possono portare all’abbandono. Ho sbagliato molto con lei. Non ho retto il peso della straordinarietà che lei credeva di vedere e, l’asso tarocco che vive latente in me, è venuto fuori. Per un po’ ha cercato di comprendermi, poi ha smesso, a giusta ragione, ché la vita la chiamava a ben più urgenti questioni. Io l’ho presa e l’ho chiusa nel cassetto a lei dedicato nel mio cuore con l’etichetta: “SERENA, UN VADEMECUM DI COSE DA NON FARE QUANDO INCONTRI UN’AMICA: MAI LASCIARLA SOLA QUANDO HA BISOGNO DI TE”. E, in effetti, non l’ho mai più fatto. Ho così tanto odiato me stessa e ho provato così tanta vergogna di me che mi sono sempre guardata bene dal farlo nuovamente. Nel corso della mia vita, da allora, ho abbandonato a più riprese: studi, libri in lettura, libri in stesura, il basso elettrico, svariati uomini di cui uno mentre ero ancora follemente innamorata, un marito, progetti di vita, parti di famiglia, una casa, due iguane, ma mai più un’amica ed è solo merito di Serena P.
Oggi io e Serena, siamo nuovamente in contatto. La nostra è una nuova amicizia. Entrambe mamme, entrambe lavoriamo e a giugno ci incontreremo dopo tanti anni, a Firenze, al concerto dei Foo Fighters, musica eravamo e musica ritorniamo ad essere. Tutto è bene quel che finisce bene.

Da allora però, il mio Karma delle amicizie si è guastato. Qualcosa è andato storto. Ma sono anche stata fortunata, a dirla tutta, in quegli stessi anni, ho avuto la più grande fortuna della mia vita. Ho scoperto che la mia persona, quella che pensi solo Meredith e Cristina si amano così, io in realtà ce l’avevo sotto il naso, solo che ero troppo impegnata ad atteggiarmi a bad girl per riconoscerla.
Claudia è entrata nella mia vita col sorriso, portando solo e sempre gioia sconfinata, amore incondizionato, speranza nella vita, comprensione, telepatia, accettazione di me, brividi e, da allora in poi non è mai più uscita. La mia persona dal lontano anno duemila. Diciotto anni di amore puro. La relazione più lunga della mia esistenza. E pensate, è venuto fuori che, in realtà, siamo più unite noi di Meredith e Cristina, ché loro tra le gravidanze, l’adozione e la vedovanza della prima e la carriera in Svizzera dell’altra, si sono perse. Noi due, invece, anche a circa tremila chilometri di distanza siamo e per sempre saremo, noi. Tante persone sono entrate nella nostra vita in diciotto anni. Due mariti, uno è rimasto, l’altro no. Due figli che si amano quanto le loro mamme e che noi amiamo come avessimo ciascuna di noi, due figli. Quattro cani, si veda i figli e tanti amici. Alcuni sono rimasti, altri sono andati, ma nessuno ha mai potuto sedere al centro dei nostri cuori perché quei posti sono stati assegnati venti anni fa. Da questa amicizia, ma in verità, da lei come essere umano, imparo ogni giorno cosa significhino parole come: determinazione, volontà, sobrietà, classe, semplicità, fedeltà, lealtà, amore, sopravvivenza e onestà intellettuale. Claudia, rende il mondo un posto più pulito e me una persona migliore. Sempre e per sempre, bimba.

Poi, ci sono le amicizie della maggiore età. Su queste, il sunto è presto fatto. Le amiche dell’età adulta si dividono in due macro categorie. Le ride or die quelle con le quali ti butteresti col paracadute, per intenderci e le stronze approfittatrici. Che poi le due macro categorie producono anche una serie di sottocategorie, come ad esempio le amiche che prima ti convincono a saltare e poi ti rubano il paracadute, e allora, scopri che sono stronze e che tu non sei la loro Thelma. Alla fine meglio dividerle alla vecchia maniera, dopo averle conosciute, tra buone amiche e conoscenti. Le amiche della maggiore età, dovrebbero altresì essere definite per definizione, amiche della ragione. Ma se devo dirla tutta, io, per esempio, se penso a Cecilia, immagino una scena di follia ad ogni costo, notte fonda io e lei ubriache come due bisce nei peggiori bar di Caracas con l’elevata possibilità di tornare a casa senza un rene venduto a un trafficante di organi per pagarci due tatuaggi e il taxi fino all’aeroporto. Ecco, lei è quel tipo di amica, che poi, a titolo informativo, è la madre della migliore amica di mia figlia Virginia, roba che al parco mandano gli assistenti sociali a spiarci, per dire.

Tra queste dell’età adulta poi, ci sono quelle con le quali hai condiviso il momento peggiore della tua esistenza; quando eri così grassa da non poterti, letteralmente, abbassare sulle tue stesse gambe perché, a causa della ritenzione idrica, rischiavi un misto tra implosione ed esplosione ad ogni movimento, o come amate dire voi durante la gravidanza. Sono le amiche del corso preparto. Con loro si instaura un mutuo tacito accordo secondo cui nessuna consentirà cotanta bruttura alle altre di nuovo. Nemmeno in caso di nuova gravidanza e, infatti, le mie due amiche, hanno avuto anche altre due nuove gravidanze, ma non sono lievitate mai più. Se lo chiedete a loro, vi risponderanno che hanno capito che saremmo diventate amiche, quando un giorno, sedute tutte in cerchio nelle nostre pance mongolfiera a passarci di mano in mano, un improbabile fantoccio neonato per apprendere tutti i segreti del cambio pannolino, io inorridii alla notizia che i neonati potevano defecare anche nel pieno della notte e tu, madre, eri anche tenuta ad alzarti e cambiarlo. In quel momento le ho guardate, ero disperata e loro hanno compreso che avevo bisogno di essere guidata. Non hanno più smesso. Il nostro rapporto, è cresciuto di pari passo ai nostri figli e a braccetto con le lezioni di genitorialità che la vita, ci impartiva. Ma la cosa straordinaria è che il nostro rapporto è uscito dall’edulcorato mondo pannolini e rigurgitini immediatamente ed è diventato un rapporto vero, concreto, scevro da tutte le balle che madri si raccontano ed è divenuto un rapporto di amicizia vera. Sono due donne, Cristina e Annarita, che io amo e ammiro in egual misura e se dovessi incontrale in qualunque parte del mondo e in qualunque fase della mia vita, mi riterrei sempre fortunate a poterle chiamare amiche. E poi gente, mi salvano il culo continuamente. Mi salvano da me stessa. E mi hanno trascinata in palestra. A me. Michela Pigra Belli. Se non è amicizia questa, non saprei. Sono le amiche che guardo dare sfogo alle loro isterie e capisco, matematicamente, perché mi sono amiche. Sono le amiche che il pettegolezzo ci sta tutto e se siete fuori a cena si va in tre al bagno. Sono le amiche del liceo, fuori tempo massimo dal liceo. Che loro lo sanno che frana sei, ma diamine, ti tendono una mano per non cadere. Quelle amiche che ti fanno rivalutare la vita e l’umanità e ti fanno desiderare di non essere l’asociale di sempre.

Quelle che il loro inchiostro è sul tuo corpo per sempre e con loro condividi il finale "E visse da sola felice e contenta e se ne sbatte per sempre le palle del Principe Azzuro, tanto lei ci aveva la progenie e i cani. Cani a gogo". Ti voglio bene, Carolina.

Poi ci sono le amiche sul lavoro, che ci devi trascorrere un botto di tempo insieme e senza sapere come e quando, scopri di conoscerle a menadito. Quando le incontri, non l’avresti mai detto, ma poi finisci per affidargli tua figlia, come è accaduto con la mia piccola Sofia. Che di piccolo ha solo un numero anagrafico, ma che è grande, in tutti i sensi: di testa e di cuore. Che la guardo negli occhietti vispi e profondi che si ritrova e vedo me alla sua età, identica spiccicata e vorrei solo abbracciarla e dirle forte: CORRI VIA, SCAPPA!

E, infine, ci sono, le narcisiste. Quelle che hanno la parola amicizia sulla bocca ben salda, ma che sul cuore trema un poco. Vero? Non è colpa loro, mai. Non è che non vogliono esserci, è solo che c’è sempre un loro dolore wertheriano di mezzo, un loro struggimento da dover superare, poi stai ben certa che verranno. Poi. Alla fine. Al netto del loro prezioso soffrire. Il tuo non conterà, mai. Fai pace con questa semplice verità e, allora, potrai esser loro amica. Imponi te stessa e la loro schiena è tutto ciò che vedrai. È una questione di priorità, le tue e le loro. Il fatto amica, è che tu non sarai mai e poi mai una loro priorità. Assumi questa consapevolezza, falla macerare nel tuo cuore ferito e vai avanti. Non c’è altra possibilità. Ti deluderanno sempre e, le deluderai sempre. Con loro, non sarai mai al sicuro e la sensazione di abbandono che conosci fin troppo bene, quella stessa sensazione di non essere abbastanza per far sì che si resti al tuo fianco, continuerà a strisciarti dentro e ti impedirà di essere te stessa fino in fondo perché continuerai a pensare: “posso dirlo o faccio succedere un’altra tragedia”? E tu non sei davvero più il tipo di persona da sturm und drang. Tu sei un due, così ti hanno detto e sei una cazzo di regina, la gente deve voler restare. Sempre. Ad ogni costo. Se non è così tu amica, vai avanti.

Allora, quando incontri un’amica di questo tipo, tu pensa solo a questo, che se ne hai anche solo una di amica, non hai bisogno di altro perché:

"Per raro che sia il vero amore, è meno raro della vera amicizia". Francois de la Rochefoucauld

lunedì 12 marzo 2018

La palestra come la vedo io. SKY IS THE LIMIT

Arriva sempre, nella vita di ogni donna, il giorno in cui questa si guarda allo specchio e sa che deve correre ai ripari. Come un Freccia Rossa che la investe a massima velocità. Di solito, lo sfortunato evento è l’infelice epilogo del suo primo rapporto sessuale in reggiseno, o peggio ancora, in reggiseno e maglietta. Della serie, amico cerca, punta e scappa via. Le tette te le sei giocate al ventiduesimo mese di allattamento, quando tutti dicevano –“Oh, che bella questa cosa che allatti ancora!” e tu avresti voluto tanto spiegare che no, non era una libera scelta era il piccolo Gremlin, si era attaccata indemoniata alle tue cazzo di poppe 22 mesi orsono!
So da fonti certe che l’epifania del corpo flaccido è arrivato ad alcune donne in spiaggia, la prima volta che si sono dovute chinare a fare un merdosissimo castello di sabbia e quello che fino a 12 mesi fa era un sexy accenno di pancetta da danza del ventre, ora in moto oscillatorio è solo trippa post parto. Altre hanno detto, di aver fatto a pugni con l’immagine di loro cui erano abituate alla Coop mentre erano intente a prendere un barattolo di legumi dallo scaffale più alto e quello che un tempo era un normale bicipite non allenato le ha con veemenza schiaffeggiate! Sbaam, corri ai ripari, chiatta! Che poi, diciamolo, a nessuna donna sopra i 30 e madre è chiaro perché tenere in braccio un essere umano il cui peso varia tra i 5 e 10 kg non serva un cazzo all’allenamento dei bicipiti, ma ti assicura la lussazione di un’anca e la relativa apertura di un conto forfettario dal fiosiokinesiterapista! Questa mettiamola, sotto la voce: i mille misteri della maternità.

Insomma, vi è un momento al quale nessuna può sfuggire, in cui l’impietosa legge fisica della gravità, bussa alla tua porta.
Personalmente, avevo studiato uno stratagemma di fuga da me stessa, che mi aveva permesso di superare con una buona dose di fottesega, tutte le tappe appena citate. La mia tattica, basata su 36 anni di vita era semplice, ma geniale: assecondare la mia apatia, mentendo spudoratamente a me stessa e devo dire, vivevo felice. Mi raccontavo castronerie di ogni genere, “oggi, è martedì, di Venere e di Marte, non si da principio all’arte. Oggi, è lunedì e devo affrontare il monday blue. Il mercoledì devi ancora affrontare metà settimana. Il giovedì, che fai, neghi l’aperitivo alle tue amiche?” e così daccapo al lunedì seguente fino a quando, un giorno ai saldi invernali della Benetton, non mi sono trovata di fronte ad un’amara verità: non posso più comprare un jeans senza misurarlo. L’ho detto. Che poi uno ti vede, pensa che sei magra e allora che ti lamenti a fare? E, invece, che ne sanno loro del dimagrimento della massa muscolare che ti rende sorella diretta di Slimer?

La verità amiche, è che nella lotta alla legge di gravità, siamo un fronte unico di soldati fasciate in divise dagli improbabili colori fotonici, scoordinate come tante scimmie che ballano la Makarena a urlare STRETCHING (ndr lo stretching è il momento di chiusura dell’allenamento)!!!!

A trentasei anni, il culo del mattino, dopo 8 ore di sonno, non è lo stesso culo della sera.
Raggiunta questa consapevolezza, tutte ci iscriviamo in palestra!

E così, quel lunedì maledetto, è arrivato e tu ti ritrovi a sudare come un porco, che non sai nemmeno se poi è vero che i porci sudino, ma l’immagine ti sembra renda bene l’idea con due delle tue più care amiche, che ben conoscono la tua proverbiale indolenza e un manipolo di altre donne, tutte più grandi di te e tutte più allenate di te. Quando senti il tuo Personal Trainer urlare plank e tu confusa cerchi di capire A) come sia successo che tu abbia un PT e B) cosa cazzo sia un plank. Poi ti guardi intorno, vedi queste signore distese pancia sotto col peso sui gomiti e sulle punte dei piedi, mantenere questa folle posizione, per più di 60 secondi grazie alla trazione addominale e tu, invece, cadi dopo 3 secondi netti e comprendi che non hai la minima idea di quello che stai facendo e che non sei in possesso di una cosa fondamentale alla palestra: gli addominali.

Andare in palestra, è di per sé, quando rapportato alla figura di Michela Belli, un evento a metà tra l’apparizione della Madonna ai Pastorelli di Fatima e l’adorazione della vacca nella cultura hindi.
Da qualsiasi angolazione tu la voglia vedere, c’è un qualcosa di mistico.

Quando 3 anni fa le mie amiche mi hanno condotta alla lezione prova di Zumba, abbiamo trovato l’istruttore e le altre allieve che impersonavano un Presepe vivente in mio onore, poi quando alla fine della lezione, l’istruttore mi guardò e mi disse “se vado a sinistra, anche tu devi farlo” tutte smontarono il Presepe e mi diedero un bel calcio nel culo. Le mie amiche presero le distanze, “noi questa imbranata, non la conosciamo!” Scherzo, però davvero, per una pigra come me, trovare la palestra giusta è stato un lento e sacro peregrinare. Sono una di quelle che, i proprietari delle palestre la vedono, e sanno che il pollo da spennare è appena entrato. Due chiacchiere e pago l’intero abbonamento annuale, perché si risparmia sono mica scema io, la card, il certificato di sana e robusta costituzione e poi qualcosa va storto. Mi alleno, un giorno, soffro da cani per l’acido lattico dovuto alla mia inettitudine, ritorno in palestra e poi il giorno dopo piove. Il lento declino. La pioggia arriva e mi ricorda che sono pigra, che non ho voglia di fare un cazzo, mi stappo una birra e ciao. Davvero, il mio rapporto con il corroborante mondo del fitness è stato sempre questo, invece a questo giro, complice il culo moscio, la compagnia delle mie amiche, la simpatia di David il PT e delle altre ginnaste anonime, come le chiamo io, ho accettato la palestra come una vera e propria rivoluzione interiore.

La palestra mi fa sempre schifo, ma il fatto stesso di riconoscerlo, mi pone in una condizione di consapevolezza e autodeterminazione e, allo stesso tempo, mi conosco abbastanza da sapere che questa parentesi di ascensione mistica, non durerà per sempre, quindi, ho pensato di prendere appunti.

Quello che leggerete di seguito, è un resoconto semiserio dei miei lunedì, mercoledì e venerdì mattina da circa tre mesi a questa parte. Nota Bene la dimensione temporale, come in ogni ascensione che si rispetti, si dilata e si restringe (insieme al mio ormai super allenato perineo) in maniera diversa dal presente cosmico che noi tutti viviamo. In tale contesto, tre mesi potrebbero essere di meno e tre ore potrebbero in effetti non essere proprio tre ore, ma perdonerete l’artificio letterario, teso a provocare la vostra totale empatia.

Suona la sveglia, ho scelto il cinguettio degli uccellini per infondermi un po’ di sano positivismo primaverile, ma una sveglia che suona alle 7.00 quando sono sei anni, o anche 2190 giorni, che non dormi 8 ore di fila perché, il Creatore ha deciso di puntare ogni notte una sveglia alle 4 nel ritmo sonno veglia della tua pargoletta, non infonde un granché di brio e ottimismo. Invece, ti scaraventa veloce nella prima bestemmia della giornata e in seguito è tutto un colorato fluire di Santi dal Calendario Gregoriano. Ma tu, sei decisa, vuoi quel culo di marmo, ti alzi e cerchi di sorridere a tua figlia che, nel frattempo, nei primi due minuti di veglia ti ha già raccontato i sogni della notta trascorsa e tu sei lì che cerchi di connettere i due neuroni svegli del tuo cervello, ma tutto quello che puoi pensare è caffè, caffè, caffè. Ti trascini in cucina, ti bei per un nanosecondo della tua scelta di comprare la Lavazza a modo mio, a 36 anni hai sviluppato una tale idiosincrasia alla sopportazione del mondo PRE CAFFE’, che i due minuti di attesa della moka ti erano, ormai, insopportabili. In centoventi secondi, hai già bevuto due caffè. Inizi a decodificare l’ambiente che ti circonda, chi sei, dove sei, cosa fai. La parola palestra fa capolino mostruosa nella tua coscienza, mediti di scappare. È il primo stadio del lunedì: la negazione. Seguiranno la frustrazione, la rabbia, l’accettazione e la libertà.
Incapsuli tua figlia nel grembiule, indossi la tuta e ti avvii verso il nefasto destino. Dopo aver lasciato tua figlia a scuola e provato inconsciamente a perdere più tempo possibile in chiacchiere con le maestre che ti guardano interdette con il chiaro interrogativo del “cosa cazzo vuole questa stamattina, non le basta che mi subisco sua figlia devo pure darle a parlare” e un “AHHHHHHHHHHHHHHHH” perché è così che mi immagino il cervello di una maestra di scuola materna, arrivo al parcheggio della palestra. Sono in anticipo, ancora. Lo faccio di proposito. Ho bisogno di raccogliere le forze. Alzo lo sguardo. Giurerei di aver intravisto la scritta ARBEIT MACHT FREI, invece è solo un adesivo che sigla NO PAIN, NO GAIN. Penso a un altro Santo dal Calendario.
Una lacrima vuole scendere prepotente, sul mio volto. La ricaccio indietro. Sono in piena fase frustrazione. Perché? Perché? Mi domando inquieta, mentre porto il mio corpo flaccido nel freddo spogliatoio. Fa freddo. Fa, un cazzo di freddo. Ora è rabbia.
Entro in sala, sono in piena fase accettazione. Rotolo con mestizia, letteralmente, da una postazione all’altra.
Warm up e tu pensi via, giù, ormai sono una che sa quello che fa. Adolf chiama il primo giro di addominali, e ti ritrovi a cosce aperte con un uomo che ti urla farfallina e all’improvviso ti domandi dove sia l’acchiappa farfalle e, non c’è versi, pensi che la tua farfalla è deforme, la farfallina delle altre è sempre più bella.

Le mie compagne di cella, sono dei tipi umani fantastici.
C’è la morbida, una signora morbida nel corpo e nel sorriso, che ride e tu non puoi fare a meno di sorridere con lei. Lei è la prima che cerco, perché quando ho freddo, mi riscalda il tepore del suo sorriso. La Yes We Can, che la guardi e sai che il cambiamento è possibile, lei è la stacanovista della situazione, non importa quanto sia dura, lei ce la farà. La calvinista, che lei odia la palestra come te, ma la sua morale, la sua etica alla fatica e, soprattutto, il suo noto amore per i dolci, fanno di lei l’atleta per eccellenza, lei piange con te, ma a differenza tua, spinge su quei cazzo di glutei. Poi, c’è la boia al patibolo che ad ogni postazione spegne la voglia di vivere un po’ di più, con lei hai una speciale connessione mistica. Ancora, flashdance, che lei balla poi del resto frega il giusto, la over the top solo che Sylvester Stallone si girava il berretto, lei inforca una bandana e diventa una cocainomane, non si ferma un secondo, lei tiene in ordine la sala, raccoglie i soldi per la sala, porta la pesa persone per farci pesare e non smette un secondo l’allenamento, che tu vorresti abbracciarla e dirle, qui ci vuole un intervento e passarle una porzione di cibo unto e bisunto. E poi lui, Adolf alias il diavolo veste Nike. Il mio incubo. A volte lo guardo e vorrei infierire su di lui con il forcone che si porta dietro dall’inferno, altre, lo guardo e penso non ce la faccio, ma la verità è che lui è la mia maggiore fonte di ispirazione. David, è speciale per me. Io auguro a ogni donna chiappe flosce come me, di incontrare sul suo cammino, un istruttore così. Lui ama quel che fa con una pulizia di sentimenti, una passione, una dedizione e un’ironia, coinvolgenti. Quando senti che stai per cedere, quando senti che in pochi secondi ti si strapperà ogni muscolo, lui viene e ti spinge oltre il limite che ti eri prefissata. Non importa quanto sia alto il limite, lui viene e ti alza di una tacca l’asticella e tu sei lì e giuri che non puoi farcela e lui ti sorride e dice “ce la fai anche quando non ce la fai” e diamine, ce la fai e dopo un paio di mesi, scopri che i muscoli si iniziano a definire e stenti a riconoscerti, perché tu non sei una che ha l’abitudine di tornare. Tu lasci sempre tutto a metà, ma non questa volta.
Alla fine della lezione un solo coro si leva al cielo STRETCHING e il sorriso torna sul tuo volto. È l’ultima fase, la libertà.
Anche questa mattina hai dimostrato a te stessa che ce la puoi fare e scopri all’improvviso, che la palestra ti ha insegnato una cosa importante: nella vita bisogna impegnarsi, bisogna sudare, bisogna fare un passo alla volta, bisogna fare una fatica bestiale perché quando vedi un piccolo risultato prender forma sul tuo corpo, è come se, d’un tratto, non vi fossero montagne abbastanza alte da scalare, poi, diamine, esci dalla palestra e torni la donna di sempre, persa tra dubbi amletici, ipocondriache paure della morte e terrore del mostro che senti di essere, ma quell’ora e mezza di vita pratica a cervello in posizione off, ti riporta alla vita, ogni dannato giorno dispari e allora ti dici che sì, la palestra come macro-universo è per te un posto di merda, sì sudi e ti stanchi, ma in qualche modo, ora sai perché ci vai, perché ti mette in moto tutta una serie di processi interiori più importanti dei centimetri persi e dei muscoli ridefiniti. Sono procedimenti interni che contano, perché definiscono te, come donna, come essere umano, te e la tua rivoluzione umana, te e il tuo tempo e allora aspetti il mercoledì e ti ripeti che “ce la fai anche quando non ce la fai”.

lunedì 5 marzo 2018

Di Londra, Alice e il Bianconiglio.

A Gatwick, l’aria taglia il viso e ti ricorda che sei viva, il volo è andato bene. Anche questa volta sei al di qua del mare.
Londra è un luogo fisico, una città camaleontica, un angolo di pianeta in cui, in effetti, trovi tutto il mondo, ma Londra è, più di tutto, il luogo del mio cuore. Quel posto dentro me che resta immutato dove accartocciarmi in pensieri indissolubilmente felici, quando tutto intorno, invece, crolla e accade spesso, che io costruisca e veda crollare. Sono fatta così, impiego la medesima forza nel costruire e nel distruggere. Dico sul serio, a volte ho pensato di avere un super potere perché, chi altri è così matto, cieco, o più semplicemente, così idiota da volere e respingere contemporaneamente una cosa, una persona, un luogo? La paura di vivere, che qualcuno molto più profondo e illuminato di me chiamava il male di vivere, è in me così radicata, che nemmeno l’idea di realizzare un sogno tanto grande, al quale sono così affezionata, come appunto vivere a Londra, ha mai potuto smuovermi dal porto sicuro in cui mi trovo. Accadeva così che, negli anni, tutti passavano, sostavano o rimanevano a Londra, tutti tranne me.

Per lunghissimo tempo, ho tenuto la mia vita in standby, proprio per questo motivo. Aspettavo il coraggio necessario a vivere perché, alla fine dei giochi, di questo si trattava. È l’iperbolica questione del leone contro l’agnello, non possiamo farci molto. A un certo punto è giusto abbracciare la propria natura. Di giustificazioni me ne sono date a vagonate, ma dentro me, sapevo che la verità è che c’è chi ha coraggio e voglia di vivere e di esplorare e chi, invece, non ce l’ha. Lo chiamano il gene del viaggiatore. Verosimilmente io faccio parte dei secondi e per quanto sia più poetico additare il fato, è pur vero, che a te stessa, non dovresti mentire. Come si dice, in un mondo di approssimazioni e bugie almeno a te resta fedele, giusto? E, invece, di bugie a me stessa ne dico molte. Non ho gran rispetto di me, delle mie emozioni e non ascolto il mio cuore con la dovuta attenzione. Mai. Perché devo correre, devo arrivare presto, devo essere amata, devo dimostrare quale splendore io sia. Che sono un castello addobbato a festa, che sono un luogo incantato in cui farti godere delle meraviglie della vita quando la verità, è che sono feccia, altro che castelli e corti e grandi feste. Un’illusionista se credete, o forse, solo una bugiarda patologica. Londra è un pò così. Chi la conosce lo sa. È nobilissima e miserabile nell’arco di un giro del London Eye. Se l’enneagramma della Gestalt potesse essere usato sulle città, lei sarebbe un due, il suo profumo di casa, me lo racconta sempre. Regale ad ogni passo, ad ogni angolo. Una nobildonna sul baratro della follia, il cappello da cerimonia e la veletta a coprirle lo sguardo pieno di lacrime per l’ennesimo amore finito male. La ami e la odi in egual misura. Ma Londra, è anche il colore dei matrimoni indiani di Bricklane col profumo della via del curry. È il tè delle cinque con il latte, che tu pensi che ti farà schifo e, invece, ti ritrovi a berlo tutti i giorni. Passano gli anni, diventi intollerante al latte vaccino e ti reinventi nel Chai latte alla soia. Londra è la musica punk che esce anarchica da qualche sottoscala di Camden, il mercatino antiquario di Portobello al sabato mattina nella bella Notting Hill, quella del film dove Julia Roberts molla Hollywood per il ciuffo fluente e l’accento sexy del bel Hugh Grant. Londra è poter mangiare la pizza napoletana da Michele. Londra è arrivare lì neo laureata, avere paura del mondo, incontrare un gattino randagio e metter su famiglia con lei (vero, Stefania?). Londra è diventare donna e decidere che quella è casa tua da adulta (vero, Claudia?) Vivere in un flat con persone provenienti da diversi continenti, cenare una sera portoghese, una sera sudanese, una sera italiano perché tanto siete tutti in casa insieme. È trovare un giardino segreto mentre ti dirigi a lavoro, vederlo fiorire in primavera e sentire che tu e la città siete diventate amiche. Londra è guardare la partita in un pub con l’amico musulmano che prega Allah che faccia vincere il Barca, mentre l’amico napoletano impreca e chiede aiuto a San Gennaro per proteggere la rete degli azzurri, avendo la matematica certezza che nessuno si offenderà. Londra è affascinante e discreta, chiassosa e silenziosa, da bosco e da riviera come dicono in Toscana. Per questo è un due. Te ciacca e t’ammereca come diciamo a Napoli, per questo, è l’amante perfetta. É il mio metro di paragone, come quei fidanzati che ti restano dentro, che tutti quelli che seguiranno dovranno reggere il confronto. Roba che New York è stupenda, ma Londra… solo la mia Napoli può reggere il confronto, ma nell’aggettivo mia vi ho già spiegato il motivo, o no?

In un pub seguo le indicazioni per i servizi igienici delle donne, mi ritrovo in una parte della struttura molto più vecchia, di circa mezzo metro più bassa, devo, infatti, inclinare la testa per proseguire. Quando la rialzo, sono Alice nel mezzo del paese delle meraviglie, avete presente quando incontra lo stregatto e gli chiede indicazioni, ve lo ricordate quel passaggio?
-“che strada devo prendere”?
-“dove vuoi andare”? fu la risposta di lui
-“non lo so” rispose Alice
-“allora” disse il gatto “non importa”

mi risveglio nel mezzo della mia ricerca proustiana. Non lo so. La drammatica verità della mia vita è questa. Non so dove voglia andare e non ho la minima idea di chi io voglia essere.
Cosa voglio fare da grande? Ma soprattutto, quando diventerò grande?
Ho quasi trentasei anni. L’età, dicono, è un numero, ma più mi guardo intorno, più scopro che, nel mio caso, questa storia dei numeri è particolarmente vera, mi seguite?
Quelli della mia generazione sanno di cosa sto parlando. Non nascondiamoci. Ci chiamano picky, non hanno capito che siamo solo confusi. Siamo spaventati e se posso dire la mia, abbiamo ogni cazzo di diritto di esserlo. Ci hanno scaraventato in questo mondo nel pieno dei fallimenti dei loro sogni e poi si disperavano del nostro cinismo e del nostro sarcasmo.

Personalmente, sono ancora più figlia di quanto mi senta madre. La sera quando vedo la mia mamma ho bisogno che mi stringa e in quell’abbraccio mi faccia sentire perdonata di essere la frana che sono. Eppure sono sei anni, che mi esercito a fare la mamma e sì, per ora sono ancora persa nel mare delle indecisioni croniche: dovrà mettere il cappello? Ci sarà troppo vento? Se la mando a scuola con la tosse sono una madre degenere? Ma se mi separo e poi rendo noto a mia figlia di sei anni che ci si può rinnamorare e poi scoprire, ancora, che l’amore non è abbastanza per vivere, minerò per sempre la sua fiducia nei rapporti di coppia? Cose semplici, insomma. Domande alle quali è facile rispondere, direi.
Vorrei essere spietata. Mi correggo, vorrei piantarla una buona volta di essere spietata solo con me stessa e iniziare ad esserlo con chi mi circonda e pretende che io sia perfetta come si aspetta. Non lo sono. Non sono perfetta. Sono la brutta copia del tema. Tutta cancellata, piena di digressioni e frasi al margine.
Diamine, come vorrei essere mia madre. Non potrò mai spiegarvelo. La mia mamma è una che la vedi e vuoi essere lei, non ci sono cazzi. Sono cresciuta con l’idea che avesse la verità in tasca e il verbo sotto la lingua, poi, per carità, alla mia età, probabilmente, brancolava nel buio al mio pari (ne dubito) ma lo faceva con una classe e un ingegno che la gente non poteva non cadere ai suoi piedi e, amici, lo facevano credetemi. Una, cazzo, di, regina. Io sono Alice, invece. Pigra, svogliata sui libri, incostante, capricciosa e perfettamente in grado di inseguire un coniglio col panciotto e l’orologio a cipolla più grande di lui, senza pensare che l’inseguimento non le porterà di certo nulla di buono per poi ritrovarsi a piangere. Sono cresciuta con Alice, come lei mi faccio rapire dai colori e penso poco all’essenza. Nulla è come appare. È il mio mantra, ma poi mi distraggo e cado nel vecchio errore di sempre. Sono sempre alla ricerca del dannato bianconiglio. Non c’è tana in cui non cerchi di scovarlo; ecco le tane in questione, mi riportano in tondo sempre a Londra. Anche oggi. Trentasei anni, una figlia a carico, un cane e un cuore appesantito. Sono di nuovo qui a guardare questa spaventosa città negli occhi. Ancora faccia a faccia col mio bianconiglio e lui, ancora sfugge. Mi porta in tondo, senza via di uscita. L’unica differenza è che, ve l’ho detto altrove in qualche altro post, sono diventata consapevole.

Oggi, posso in tutta onestà dire di essere consapevole di non sapere.

Ho trentasei anni, me lo ripeto, così magari la smetto di farmi sconti. È ragionevole pensare che non diventerò una scrittrice di successo. Raggiunta questa consapevolezza, dovrei sentirmi libera e scrivere per il puro piacere di farlo, giusto? Bé, non è così. Ancora scrivo nella speranza che il bianconiglio smetta di sfuggirmi. Ancora lo faccio con quella vocina dentro me che sussurra:-“Ah, scrivi? Che carina! E poi che lavori fai”? Il lavoro è fatica. Il lavoro deve affaticare, per questo a Napoli lo chiamiamo ‘a fatic.
Ho da fare i conti con l’affitto anche io e quando non è l’affitto è il senso di colpa calvinista che mia madre mi ha inculcato. Sono cresciuta in una famiglia nella quale si vive per lavorare. Il lavoro nobilita l’uomo e gli apre le porte del paradiso, poco conta che gli schiuda l’inferno in terra. Non mi aspetto che il lavoro mi porti piacere, insomma. Sono sempre stata convinta di essere destinata a qualcosa di gigantesco, ultimamente, ho il terrore che questo qualcosa sia accaduto e io non me ne sia accorta. O così, oppure sono davvero destinata ad essere una persona normale, dalla vita normale e, non me ne vogliate, ma non sono ancora pronta ad accettarlo.
Oggi, mia sorella maggiore mi ha scritto una cosa molto bella, mi ha detto dimenticati un po’ del tuo dolore e lasciati andare. Salta. Avrei voluto dirle che sono ossessionata dai salti. Che salto di palo in frasca, ma che lo faccio per le motivazioni sbagliate. Che non sono una che salta per il brivido dell’ignoto e dell’adrenalina, ma perché ho il terrore di fermarmi e sentire di nuovo la terra venirmi meno sotto i piedi. Che salto perché se salto, non mi prendi e se non mi prendi, non mi freghi. Salto perché se salto devo stare attenta a non cadere e, allora, ho ancora il tempo necessario a non guardare in faccia la realtà: che non so come fare a vivere. Che sono sempre sull’orlo del baratro, con troppe parole da dire e poco ordine mentale per raccontarvele tutte. Che vorrei smettere di guardare la donna che sono allo specchio e trovare un essere umano equilibrato che sa tenere la sua merda sotto controllo, come una quasi trentaseienne, dovrebbe saper fare.
Che salto e sono sempre maledettamente nuda davanti a tutti voi, che sono perennemente senza speranza alcuna nel futuro e che, nonostante tutto, sono ancora qui a scrivervi di me, perché lo devo fare, scrivo per non morire. A voi sembra esagerato, di base lo è, ma ho provato a lungo a non scrivere e me ne morivo ogni giorno un po’. Salto, sono sempre allo scoperto e sul cuore ho un bersaglio gigantesco che urla spara qui! Salto solo in una direzione in avanti e aspetto di tornare al punto di partenza per fare meglio il mio gioco. Salto perché ce la faccio sempre, alla fine. Sono come quei bicchieri da rum che non cadono mai a terra. Salto perché ho un terrore paralizzante della vita, ma piuttosto che ammetterlo mi strapperei un rene e, allora, salto.
Invece, alla fine, l’ho ringraziata e le ho detto che mi ha risolto il finale del post.
Che è pure una dichiarazione d’amore se mi si conosce.

Poi, oggi mi sveglio in un giorno in cui Salvini può diventare il nuovo Premier del mio amato Paese e, allora, mi dico che questo è un buon motivo per espatriare, ma che, in fondo, anche Alice, alla fine, si sveglia del suo sogno.

Inspiro
Espiro
E chiudo forte gli occhi.